Ikhlas e la sua casa in rovina nella Striscia: per tetto un telone sulle macerie
Le testimonianze dei profughi palestinesi che sono riusciti a tornare a nord di Gaza. «Vivere qui significa andare a dormire con l'ansia che un muro crolli»

«Vivere qui significa andare a dormire con l’ansia e svegliarsi contando quanti muri sono ancora in piedi. E controllare le pareti e il tetto ogni mattina, temendo che qualche pietra sia caduta di notte o che un’altra parte della casa possa franare. Significa sentirsi insicuri nel luogo che dovrebbe essere il nostro rifugio». Si sfoga Ikhlas Abu Riash, la giovane madre rimasta sola che lo scorso ottobre, poche ore dopo l’annuncio della tregua, aveva confidato ad Avvenire di voler tornare presto a casa sua, nel nord. Ora è riuscita a rientrare a Jabalia, per trovare però muri franati e un tetto collassato, rimasto ripiegato in obliquo. Vive tra le rovine «non per scelta», racconta, «ma perché non ho alternative, anche se sono consapevole del pericolo. Ogni rumore improvviso ci fa rabbrividire. Quando soffia il vento o inizia a piovere, la mia paura raddoppia. Questa non è più una casa, è una minaccia costante», scrive.
Vivono lo stesso rischio in tanti, a Gaza. L’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha), nell’aggiornamento del 20 dicembre, riferisce di altri tre edifici residenziali crollati nella zona di Saftawi, nel nord, e a Jabalia, mentre un’altra palazzina è collassata a Tal al- Hawa, Gaza City.
Le forti piogge dei giorni scorsi hanno dato il colpo di grazia a molte case già colpite dai bombardamenti. Secondo lo Shelter cluster guidato dal Norwegian refugee council (Nrc) che opera con agenzie Onu e partner locali, nella Striscia 1,28 milioni di persone necessitano di materiale per equipaggiare alloggi di emergenza. Dopo l’ultima rilevazione spaziale dell’11 ottobre, il Centro satellitare delle Nazioni Unite Unosat ha dichiarato che circa l'81 per cento delle strutture esistenti risulta danneggiato. La stima è che 320.622 unità abitative abbiano subito danni.
«Ora gli operai hanno finito di montare i tendoni», ci scrive su WhatsApp Ikhlas Abu Riash. «Ho assunto degli uomini per farli posizionare sopra il tetto. Il costo di ciascun telone è di 50 dollari. Me ne servono più di sei». Nelle foto che invia, si vede il pavimento sgomberato e ben spazzato, ma sopra pendono i calcinacci. «Di solito sono gli sfollati stessi a montare le loro tende con mezzi rudimentali», spiega la giornalista Hanan Jamil Alreffi da Gaza City. «Teloni logori e assi di legno mangiate dai tarli. Mettono sacchi di sabbia e, quando arriva il primo inverno, non riescono a resistere. Solo le Ong forniscono tende già pronte, che però capita vengano rubate e vendute al mercato nero». Prima della tregua, il loro prezzo «superava i 1.500 dollari, ma ora oscilla tra i 100 e i 200 dollari. La vita in tenda non è adatta agli anziani, gli ingressi sono bassi, bisogna chinarsi. Non c’è una produzione locale, si tratta di donazioni, ma ciò che è importato dai valichi non soddisfa nemmeno il 10% del fabbisogno. Servono case prefabbricate, container. Le tende sono inutili, d’estate e d’inverno». E poi, aggiunge la giornalista, «non esiste una distribuzione equa. I proprietari di abitazioni inagibili non beneficiano degli aiuti perché ci vivono dentro, il che è ingiusto. Ma le persone preferiscono restarci, nonostante il pericolo e i crolli che dopo le ultime tempeste hanno causato 17 morti».
Non può tornare a casa sua Ibtisam Hamad, 63 anni, che in una tendopoli di Deir al-Balah si occupa della sorella Nihaya. Vengono da Beit-Hanun, nel nord, ora sotto occupazione israeliana. «Mi sono dovuta spostare da una zona all’altra per sei volte» racconta la donna. «Viviamo in tenda, abbiamo freddo. La pioggia allaga i teloni, il vento li abbatte». Sua sorella è affetta da una patologia mentale grave. «Non so come proteggerla. Lei ha bisogno di vestiti invernali, cibo sano e più di tutto di pannoloni assorbenti. La lavo e la cambio ogni giorno, ma sono molto stanca». Poi conclude: «Vivere in tenda è duro in tutti i sensi: freddo pungente d’inverno e caldo soffocante d’estate. Non c’è nessuna sicurezza e nessuna privacy. Ci addormentiamo nella paura e Lci svegliamo nel dolore».
© riproduzione riservata

© RIPRODUZIONE RISERVATA






