sabato 4 febbraio 2017
Ogni giorno lo scrivano del Comune e il contabile della banca fanno avanti indietro da Erbil solo per garantirsi lo stipendio. Ma chi rientra nelle case della cittadina trova macerie e desolazione
I pendolari della speranza in viaggio fino a Qaraqosh
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Solo Zuhair Behnam e Raad Azzo, lo scrivano del Comune e il contabile della banca, ogni giorno vanno e vengono da Erbil fino a Qaraqosh e dintorni. Sono in tutto una sessantina i dipendenti di una municipalità senza un governo, ma condannati a fare presenza ogni mattina in uffici spettrali per avere dal governo di Baghdad lo stipendio pieno. Lo stesso vale per l’impiegato della banca di Kablat, un villaggio vicino alla cittadella cristiana. Zuhair e Raad, come due “pendolari della speranza”: ogni giorno avanti e indietro, fino alla città natale, liberata da tre mesi dal Daesh ma che al termine di furtivi sopralluoghi di giorno, la notte resta vuota.
«Nessuno. Nessuno. Non c’è ancora nessuno», ti dicono da Erbil i profughi cristiani. Chi torna a ispezionare la sua casa, l’officina, la scuola, a Qaraqosh trova ovunque solo un cumulo di detriti e macerie, a soffocare ogni sogno di ritornare. «Non c’è una casa, una chiesa, un palazzo che non sia stato distrutto, o saccheggiato o incendiato» spiega Terry Dutto, direttore del progetto Focsiv a Erbil. Chi ritorna a Qaraqosh lo fa in gruppo, per farsi forza nel mare di devastazione: «Adesso proviamo a fare pulizia, bruciando tutto quello che è rimasto», spiegano ai volontari due donne davanti a quel che resta della casa loro. Bruciare i resti del saccheggio, e un passato ancora più ingombrante delle macerie.

Chi ritorna a casa recupera qualche libro, o un oggetto caro. Non la voglia di ricominciare. «Possediamo un ettaro e mezzo di terra. Prima avevamo un gregge di pecore e producevamo yogurt. Torneremo se qualcuno ci risarcisce restituendoci i nostri animali. Ma prima di farlo vogliamo sicurezza».


Sicurezza e la certezza che i diavoli vestiti di nero non si possano, all’improvviso, materializzare una seconda volta. Per ora nella cittadella cristiana a una ventina di chilometri da Mosul non c’è ancora nessuna autorità: non un sindaco, né tantomeno un governatore militare a tentare di mettere ordine in una terra ora davvero “di nessuno”. Una ventina di chilometri più a ovest si combatte ancora: dopo gli squilli di vittoria di fine ottobre ora è calata una cappa di silenzio sull’avanzata dell’esercito iracheno. Da un paio di settimane le forze speciali dell’antiterrorismo a Mosul hanno varcato il Tigri e si preparano ad avanzare nella zona ovest: lì sono asserragliati i circa 6mila terroristi del Daesh. Lo sanno tutti: sarà ancora una durissima battaglia casa per casa, con tunnel e autobomba ovunque, mentre si stima che 700mila civili siano ancora rintanati nelle loro case. A Mosul, racconta chi scappa, ora si mangia una sola volta al giorno. Chi resta – fiancheggiatori del Califfato o scudi umani contro la loro volontà – vive in quello che pare già oggi un assedio mortale o diverrà, un giorno con l’altro, un incontenibile esodo di massa.


Ritornare – finché a Mosul si combatte contro il califfo Abu Bakr al-Baghdadi – sembra davvero un miraggio. Certo, non c’è sicurezza e il fronte è ancora troppo vicino, ma Qaraqosh ora è senz’acqua, senza energia elettrica e con le strade dissestate. Prima di rientrare si dovranno ripristinare le infrastrutture, ma c’è chi inizia già a progettare la ricostruzione casa per casa. Padre Giorgio Jahola, con un pool di ingegneri e volontari, tutti profughi siro-cattolici, per due settimane a partire dall’11 novembre scorso è tornato nella sua Qaraqosh: una cartella per ogni abitazione privata con foto e posizionamento sulla mappa satellitare. Sono 2.564 case distrutte, 4.262 quelle poco danneggiate, ma tutte inesorabilmente sono state derubate. Sono invece 1.850 i negozi, pure saccheggiati e 250 le fattorie e gli allevamenti danneggiati, capaci prima dell’invasione di provvedere al fabbisogno di metà della Piana di Ninive. Escluse per ora dal progetto “Plan”, le scuole, le chiese, i negozi. Un catasto artigianale, per mappare l’esistente e poter progettare un futuro. Nei giorni scorsi il patriarcato caldeo ha messo a disposizione un primo stanziamento di oltre 300mila euro per un primo intervento nella Piana di Ninive. Solo un primo passo, in quella che si speri diventi una mobilitazione per una gara di solidarietà internazionale.


Intanto a Nestiman, nel centro commerciale nel cuore di Erbil divenuto la “little Qaraqosh” del Kurdistan, i canti di gioia delle sere di fine ottobre, hanno lasciato il posto a una amara disillusione. «Gli anziani – racconta ancora Terry Dutto – dopo aver visto la casa distrutta, ora pensano a contattare un parente in Australia o in Germania per programmar la fuga. Solo i giovani, in particolare le ragazze, preferirebbero rimanere a Erbil: una grande città più attraente della loro ora devastata». Una comunità sempre più a rischio implosione. Serve presto una metà precisa da raggiungere: Qaraqosh o, in aramaico, l’antica «Baghdeda».

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