giovedì 16 gennaio 2025
«Per noi non sarà finita finché non saranno tornati». L'accordo di tregua è considerato fragile: i primi rapiti dovrebbero essere liberati domenica
Il ricordo degli ostaggi a Tel Aviv

Il ricordo degli ostaggi a Tel Aviv - Reuters

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«Per noi non è finita fino a quando torneranno a casa tutti. I vivi e i morti. Solo allora potremo cominciare a ricucire la ferita che è aperta da ormai 469 giorni». Sono questi i sentimenti che emergono tra i famigliari degli ostaggi, che stanno contando le ore che mancano a domenica, quando dovrebbe finalmente ritornare il primo gruppo di coloro che sono stati rapiti a Gaza nel massacro del 7 Ottobre.

Oggi Tel Aviv si è svegliata con un cielo stranamente grigio, quasi uno specchio del morale degli israeliani: tutti attendono da oltre un anno questo momento, ma non sanno ancora cosa aspettarsi dall’accordo siglato mercoledì a Doha. Il rilascio procederà per tappe, e questo è stato digerito con fatica e non senza frizioni – dal governo, dai cittadini, dai famigliari degli ostaggi –, ma nella speranza di poterli riportare a casa e di porre fine ad una guerra troppo lunga. «Per poter mettere la parola fine a un conflitto che sta lacerando la nazione, si dovrà pagare un prezzo molto alto», commenta chi è in Piazza degli ostaggi, a sostenere le loro famiglie. La maggior parte del Paese è al loro fianco da 15 mesi, ma ancora una volta – oggi, come prima del 7 Ottobre – Israele si trova divisa, e sofferente: «È il prezzo che si deve pagare se si vuole ricominciare a respirare». Ripetono in tanti. Ma la preoccupazione è molta.

L’accordo prevede all’inizio la liberazione di 33 dei 98 rapiti nella Striscia, di cui 36 sono stati confermati morti. Non soltanto questo primo gruppo di ostaggi tornerà a scaglioni – nei prossimi 42 giorni – ma affinché questo rilascio avvenga è stato necessario garantire il ritorno nell’enclave di 1.650 terroristi palestinesi (con un rapporto di 1 a 50) detenuti nelle carceri israeliane. Proprio come quelli (poco più di mille) che erano stati scarcerati nel 2011 per il ritorno del soldato Gilad Shalit. Tra loro c’era Yahya Sinwar, ex numero uno di Hamas e architetto del Sabato nero, che è stato ucciso dall’esercito lo scorso 16 ottobre. «Quanti altri Sabati neri ci aspetteranno?», si domandano alcuni. Persino tra i parenti ci sono tanti che si pongono molti interrogativi sul futuro, che si chiedono se l’accettazione di questo accordo che prevede ben poche certezze, – nella lista dei 33 ostaggi non si sa chi tornerà in vita e chi in una bara – possa rimettere il manico del coltello dalla parte del gruppo terrorista.

Per ora, l’unico che ha certezze è il presidente Donald Trump, che si è subito intestato il risultato dell’accordo rimarcando il ruolo che gli Stati Uniti torneranno ad avere nel corso di questo suo nuovo mandato, soprattutto per quanto riguarda gli Accordi di Abramo. «Ormai non ci fidiamo più di nessuno nel nostro governo. Siamo nelle mani di Trump», dicono i famigliari degli ostaggi. E lo pensa anche la maggior parte del Paese. Che, a proposito del premier Benjamin Netanyahu, si divide ormai solo tra chi spera nelle sue dimissioni subito e chi pensa si possa aspettare. Un’altra delle possibili conseguenze di questo accordo è la spaccatura dell’esecutivo a causa della destra estremista guidata da Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, che si sono sempre opposti ad un’intesa che non implicasse il ritorno, in una sola volta, di tutti gli ostaggi.

⁠Nella lista dei 33 rapiti che torneranno nella prima fase è previsto il ritorno di tutte le donne (10), di 2 bambini di 1 e 4 anni (i fratellini Bibas), degli uomini over 50 e di 10 cittadini stranieri. Ma rimarranno prigionieri ancora 65 ostaggi. E proprio come durante la prima liberazione di alcuni ostaggi nel novembre 2023, anche questa volta la sensazione amara è quello di assistere a un crudele terno al lotto in cui la posta in gioco sono le vite umane, o quello che di loro è rimasto.

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