
undefined - Maddalena Boschetti
«Lo scriva, per favore: noi qui siamo in guerra».
La voce di Maddalena Boschetti, al telefono, è decisa. Arriva da Mare Rouge, una località sulle colline nel Nord-Ovest di Haiti, in mezzo alla natura. Boschetti vive nell’isola da vent’anni, è una missionaria fidei donum e passa la maggior parte del suo tempo con bambini e bambine con disabilità, al centro del suo servizio. La sua testimonianza aiuta a capire che cosa significhi vivere oggi nel Paese.
Maddalena, che cosa intende quando dice che siete in guerra?
Guardi, su quest’isola la popolazione sta soffrendo enormemente... Non è una guerra come quella che ci immaginiamo di solito, con un fronte unico e due eserciti che combattono. Qui ad attaccare sono le bande criminali che da anni controllano buona parte della capitale Port-au-Prince e che vogliono imporre il loro dominio sul territorio. Compiono violenza ogni giorno in luoghi diversi e i loro soprusi avvengono contro la gente comune. Sono loro a decidere chi può entrare nella capitale, hanno preso possesso delle strade, delle vie dove passano le merci e dei quartieri dove ci sono strutture sanitarie. La situazione è così drammatica che anche l’aeroporto è chiuso, gli operatori umanitari o i giornalisti che vogliono arrivare ad Haiti devono usare un elicottero delle Nazioni Unite. E le condizioni di vita sono destinate a peggiorare ancora: nelle ultime settimane le gang hanno attaccato in zone che fino ad ora sono state considerate sicure, fuori dalla città, e mettono in atto una nuova strategia. Arrivano nelle case delle persone, entrano, sparano, poi danno fuoco a tutto. È un abominio verso la gente.
Lei riesce ad avere notizie di quello che accade a Port-au-Prince?
È molto difficile, c’è un vergognoso silenzio stampa. Alcune notizie non vengono diffuse oppure arrivano con settimane di ritardo. Le faccio un esempio: alcuni giorni fa c’è stato un attacco che ha causato morti e sfollati nella zona a Nord della capitale, ma i media non ne hanno parlato. Lo abbiamo saputo grazie al passaparola e ai contatti personali. Altre informazioni arrivano tramite Facebook, Instagram o Tiktok, che però qui hanno una doppia valenza: possono essere utili, ma diventano anche i mezzi con cui i capi delle gang diventano star e attraggono i ragazzi più giovani.
Ecco, torniamo alle bande criminali. Chi ne fa parte? E perché viene usata tanta violenza estrema?
Le gang sono composte da ragazzini molto giovani che sono stati bambini nel 2004, anno in cui ad Haiti ci furono violenze durissime (escalation di soprusi nei mesi del colpo di stato contro il presidente Jean-Bertrand Aristide, ndr). Hanno situazioni per noi inimmaginabili ed esperienze profondamente traumatiche. Ora vogliono riscattarsi e vedono nelle armi e nei soldi un modo per diventare forti, ne fanno degli idoli. Voglio sottolineare che ad Haiti le armi sono tantissime e arrivano dall’estero, anche se in teoria ci sarebbe un embargo internazionale. La realtà è che il traffico di armi non si è mai fermato, evidentemente arricchisce qualcuno. Una volta entrati nelle gang, quando iniziano ad arricchirsi, i ragazzini fanno cose folli come comprarsi case fiabesche e riempirsi di vestiti firmati. Perdono completamente il controllo su sé, spesso si drogano e finiscono ad usare la violenza in modo estremo, senza nemmeno rendersi conto di quello che stanno facendo. Ogni sopruso diventa un’azione normale, non hanno più umanità o razionalità. E se quanto sta accadendo ha una radice nelle violenze del passato, possiamo immaginare quali conseguenze avrà la situazione di oggi sui prossimi anni. Stiamo perdendo intere generazioni.
Ci racconta del suo servizio quotidiano?
Io vivo la mia quotidianità insieme ai bambini e alle bambine con disabilità e alle loro famiglie. La situazione per loro è molto complicata, sono gli ultimi tra gli ultimi. Bisogna sapere che ad Haiti i figli sono una risorsa importantissima per le famiglie: quando i genitori invecchiano, sono loro a portare a casa il necessario per vivere. Non esiste alcun sistema pensionistico. In questo senso, i bambini con disabilità non riescono ad essere un supporto per le loro famiglie e allo stesso tempo i genitori non riescono a prendersi cura di loro come vorrebbero. Ci sono poi una serie di credenze che rendono la situazione ancora più delicata: spesso si pensa che un bambino nasca con disabilità per qualche problema più grande, una sorta di maledizione.

Una delle attività a Mare Rouge, Haiti - Maddalena Boschetti
C’è una storia particolare che vuole condividere?
Sì, è un evento a cui sono affezionata. Anni fa, un missionario fidei donum era in una capanna per visitare un malato e pregare con lui. Camminando, urtò qualcosa coperto da un telo e con estremo stupore si accorse che era un bambino. Era tutto rigido, cieco, si chiamava Gasmy, aveva 7 anni. Fu un incontro sconvolgente. Subito ci si attivò per aiutare lui e la sua famiglia e anche per capire quante altre persone vivessero in una condizione simile. Lì è nato il desiderio di una vita condivisa con i bambini con disabilità, che ha portato anche alla nascita della casa dove mi trovo ora. Io dico sempre che Gasmy, nella sua impotenza, ha fatto sì che tanti cuori potessero muoversi.
Siamo nei giorni di Pasqua. Dove trova, lei, la speranza?
La vedo qui, con i bambini e con la gente che continua a vivere con forza, nonostante tutto. Questo si lega alla speranza in senso più ampio, che per me non è una fantasia ma una certezza radicata nella fede: io spero perché credo che Dio abbia sempre l’ultima parola, e Dio è amore. Il senso della Pasqua è proprio nella Risurrezione, nel sapere che c’è un Oltre di fronte al quale tutta la violenza è già sbaragliata.
Lei è legata alla Chiesa di Genova, ai padri camilliani, alle persone che anche da lontano le stanno vicino…
Sì, devo dire che non mi sento mai sola, la missione si fa sempre insieme. Negli scorsi giorni mi è arrivata una lettera di vicinanza da monsignor Tasca, il vescovo di Genova, che mi ha dato tanta consolazione, ne sono proprio grata. Ci danno sempre tanta forza anche le parole di Papa Francesco, che anche nel tempo della malattia ha voluto spendere le sue parole per Haiti.
C’è qualcosa che vuole aggiungere?
Sì. Ci tengo a dire che oggi è più che mai necessario mettere al centro l’educazione dei giovani all’empatia e alla fraternità. Mi viene in mente una frase che ho letto nella cappella dei padri scalabriniani a Port-au-Prince e che vorrei arrivasse a tutti, soprattutto ai ragazzi e alle ragazze. Dice che lo scopo della nostra vita può essere «Fare del mondo la patria dell’uomo». Questo, ad Haiti, è ancora più urgente.
Un gesto per i Figli di Haiti: aiuta ad andare a scuola i bimbi della Maison des Anges, l’orfanotrofio sfollato
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Causale: Figli di Haiti
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