
Una mamma con il suo piccolo, in un rifugio sottoterra a Tel Aviv - Ansa
«Siamo tornati indietro di ottant’anni». Michal ha ottant’anni anche se non sembra per nulla una signora anziana. Cerca di farsi un varco tra un materassino di yoga e l’altro. E tiene stretto il suo. Sembra uscita da una lezione di pilates. Invece entra in un bunker pubblico, uno dei tanti che in questi giorni stanno diventando accampamenti improvvisati. Si sistema in un angolo, con i gesti lenti di una pazienza antica. Qualcuno propone di fare yoga, giusto per passare il tempo fra un attacco missilistico e l’altro. «Non è mai troppo tardi per provare qualcosa di nuovo – dice Michal –. Anche se allo yoga preferirei camminare. Camminavo 10 chilometri al giorno, tutti i giorni, prima. Ma ormai esco solo per fare la spesa, persino in pigiama. Tanto ormai non si sa più quale ora del giorno o della notte sia, quale giorno della settimana…».
Nello shelter tutti – insonni da quattro giorni – concordano con lei, e cercano di farle un po’ più di spazio in un bunker scavato nel cuore di Tel Aviv. La “città che non dorme mai” adesso non dorme più per davvero. Gli allarmi sono continui. Alcuni degli splendidi edifici in stile Bauhaus, concentrati attorno alla splendida Bialik Square, da ieri non esistono più: distrutti dalle raffiche di missili balistici inviati dalla Repubblica Islamica, indiscriminatamente, su tutto il territorio israeliano. Lo scopo, specifico, è colpire i civil. Stando alle autorità israeliane, il bilancio è di 24 morti, oltre a 500 feriti. E si tratta solo del quarto giorno di una guerra iniziata, di fatto, 620 giorni fa, il 7 ottobre.
Gli israeliani sono da sempre abituati agli attacchi missilistici, ma non si sarebbero mai aspettati scenari di distruzione che hanno ascoltato nei racconti dei loro padri o dei loro nonni, sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale, ai bombardamenti delle loro città quando ancora vivevano in Europa. «Indietro di ottant’anni», ripete Michal.
Ora, agli israeliani di terza generazione tocca spiegare ai loro figli, abituati fin dalla nascita ad entrare e uscire dal mamad – la stanza antimissili presente in tutte le case costruite nei tempi più recenti – che ormai anche quello che era sempre stato percepito come un rifugio sicuro non basta più. È stato dimostrato dal numero di edifici distrutti in questi giorni, e dal numero di persone che hanno perso la vita. Adesso bisogna prepararsi a trascorrere le notti nei miklat: i rifugi pubblici costruiti negli anni Novanta, dopo la Guerra del Golfo. Il problema principale è che anche se questi shelter sono molto diffusi, lo spazio a disposizione è poco, soprattutto in città ad alta densità abitativa come Tel Aviv. Qui tutti si sono organizzati in fretta, con materassini, cuscini e beni di prima necessità. Ma lo spazio è quello che è. E a faticare sono soprattutto gli anziani. Che credevano di aver già visto tutto, quando ancora lo Stato di Israele non esisteva se non nel progetto di un Paese destinato a difendere il popolo ebraico dai pericoli dell’antisemitismo. Lo ricorda Michal: la sua famiglia, ashkenazita, è scappata dalla Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale. E lo ricorda Livant, che di anni ne ha 43, ma è misrachi – ovvero di origini mediorientale –, scappata dalla Persia subito dopo la Rivoluzione del 1979. «I miei genitori hanno ancora amici in Iran – racconta Livant – con cui si sentono e con cui parlano farsi, la loro lingua madre. Il mio sogno è sempre stato quello di poter visitare Teheran, dove sono nata –. Forse un giorno, quando questa guerra finirà, torneremo a viaggiare e a visitare gli uni gli altri, come era normale prima della salita al potere del regime». I suoi bambini cercano di farsi un varco nel miklat sempre più affollato: ashkenaziti e misrachi, ebrei, cristiani e musulmani, laici e religiosi. Tutta Israele, in uno shelter.