mercoledì 28 dicembre 2016
Il governo di Netanyahu ieri ha congelato i rapporti con gli Stati che hanno votato la risoluzione dell'Onu per lo stop alle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
I lavori per nuovi insediamenti a Gerusalemme Est (Ansa)

I lavori per nuovi insediamenti a Gerusalemme Est (Ansa)

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Stamani il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha chiesto il rinvio del previsto dibattito nella municipalità di Gerusalemme sulla concessione di nuovi permessi di costruzione per centinaia di nuove case a Gerusalemme Est. Netanyahu, ha spiegato una fonte ufficiale del governo di Gerusalemme, ha voluto evitare ulteriori tensioni con gli Stati Uniti. La discussione sui permessi era prevista per stamane ed è stata ritirata all'ultimo minuto dall'ordine del giorno del comitato di pianificazione e costruzione della Municipalità di Gerusalemme

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Da un lato le relazioni internazionali, dall’altro il piano regolatore della città di Gerusalemme. Le colonie saranno pure illegali per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, come affermato nella risoluzione 2334 passata venerdì scorso, secondo cui «Israele deve cessare immediatamente e completamente tutte le attività di colonizzazione nei Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est», ma per lo Stato ebraico sembrano essere più che mai necessarie.

Lo dimostra, con perfetto “tempismo”, l’annuncio da parte del governo israeliano di Benjamin Netanyahu di 618 nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est, nella parte araba, che verranno approvati oggi dal comitato di pianificazione abitativa.

Forti dell’appoggio del presidente eletto Donald Trump, che ieri ha definito l’Onu un «club inutile» di gente che «si ritrova, chiacchiera e si diverte», gli israeliani si concentrano sull’emergenza abitativa nella città con la più alta concentrazione di abitanti del Paese. Una questione poco nota a New York, ma ben chiara ai politici della destra israeliana al potere, che vedono nella creazione di nuove colonie la soluzione a tutti i problemi: economici, politici e sociali. Non è infatti per pura convinzione religiosa o ideologica che circa 430mila cittadini israeliani vivono attualmente in Cisgiordania, e 200mila a Gerusalemme Est. Casette nuove, rifinite, con guardie private che garantiscono la sicurezza, spesso con viste panoramiche sul Deserto di Giuda, acquistate al di là del muro di separazione israeliano o nella parte orientale della città. Queste case costano un terzo in meno rispetto a quelle nella parte Ovest.

I progetti in discussione che saranno approvati nelle prossime ore, riguardano l’espansione delle colonie di Pisgat Zeev (terreno in parte acquisito dalle vittime dell’Olocausto prima del 1948) di Ramat Shlomo (quartiere Haredi fondato negli anni Novanta che attualmente conta 16mila abitanti in crescita demografica esponenziale) e di Ramot (quartiere originariamente popolato dai laici negli anni ’70, oggi invece vede la prevalenza di ebrei ortodossi). La legittimazione arriva poi anche dal Presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, che ieri, incontrando i leader delle comunità cristiane, ha rbadito: «Gerusalemme unita è l’eterna capitale di Israele e tale rimarrà». L’espansione di Gerusalemme, oramai arrivata fino alle porte di Betlemme, da qui, sembra inevitabile, nonostante la risoluzione approvata il 23 dicembre scorso abbia avuto un suo innegabile valore politico e simbolico.

Per il popolo palestinese e la sua classe politica si è trattata di una buona vittoria diplomatica dopo anni di immobilismo. Per l’Anp di Abu Mazen questa risoluzione aumenterà la credibilità sul piano mondiale quando alla Corte penale internazionale verranno presentati casi di violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele. I casi più noti vedono: punizioni collettive, distruzione delle case degli arabi, espropri terrieri, deviazioni dei corsi d’acqua, interdizione della libera circolazione delle persone.

È qui infatti che si trova la vera questione, il nervo scoperto che ha irritato Netanyahu tanto da richiamare gli ambasciatori dei 15 Paesi che venerdì scorso hanno votato la risoluzione contro le colonie (l’astensione degli Usa viene infatti vista come un tradimento e quindi un voto contrario). Il fatto è simbolico (la risoluzione non ha effetti legali) ma grave. La risoluzione voluta dal presidente americano uscente, Barack Obama, verrà sicuramente depotenziata da quello entrante, Donald Trump, nel giro di un mese, ma intanto il danno d’immagine è fatto. E poco cambia se la futura sede dell’ambasciata statunitense passerà da Tel Aviv a Gerusalemme, come promesso da Trump. Per Netanyahu, una legittimazione futura non vale quanto una reazione energica odierna. Per questo ha annunciato immediate ritorsioni contro i Paesi che hanno votato la risoluzione: stop agli aiuti ad Angola a Senegal, cancellazione della conferenza di pace tra israeliani e palestinesi proposta dalla Francia, annullamento dell’incontro con il premier ucraino.

Cose che probabilmente non cambieranno l’assetto politico israeliano sul piano internazionale ma che servono al premier a mettere a tacere le critiche di chi, come il ministro dell’istruzione Naftali Bennet, è pronto a superarlo a destra.

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