
ANSA
Quando i viveri entreranno a Gaza, e non c’è ancora una data, potrà essere sfamato solo il 60 per cento della popolazione, che si trova in condizioni di «privazione estrema». Lo ammette una nota della costituenda Fondazione umanitaria per Gaza, promossa da Israele con il sostegno dagli Stati Uniti. A rivelarlo è il Times of Israel, che ha potuto visionare il documento. In un primo momento i quattro «siti di distribuzione sicuri» che Israele sta allestendo nell’estremo sud della Striscia potrebbero sfamare 300mila persone ciascuno. In seguito, avranno «capacità di superare i 2 milioni» in tutto. Prima della guerra, gli abitanti di Gaza erano 2,25 milioni. Un funzionario ha detto al Times of Israel che il governo si augura che Paesi terzi comincino ad accogliere i palestinesi, in modo da ridurre la discrepanza fra la capacità di fornire gli aiuti e il numero delle bocche da sfamare. Un progetto respinto con sdegno dalla comunità internazionale, che l’ha condannato come una forma di deportazione.
La ripresa dell’ingresso di aiuti umanitari, bloccati da Israele dal 2 marzo, dovrebbe essere annunciata la prossima settimana, dal 13 al 16, durante la visita di Trump in Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar. Per l’Unicef, il piano israeliano di distribuire i viveri direttamente ai civili dopo averli fatti spostare tutti a sud, per evitare che finiscano nelle mani di Hamas, «accrescerà la sofferenza di bambini e famiglie». «L’uso degli aiuti umanitari come esca per forzare il trasferimento, specialmente dal nord al sud – ha denunciato il portavoce James Elder – costringerà alla scelta impossibile fra lo sfollamento e la morte». Di senso opposto, ma ugualmente dure, le critiche arrivate dall’estrema destra israeliana. «È una follia e un errore morale e strategico che i cittadini di Gaza ottengano rifornimenti mentre i nostri ostaggi muoiono di fame» si è spinto a dire il ministro della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, che in consiglio di sicurezza aveva votato contro la ripresa degli aiuti.

NIR ELIAS
Il piano era stato presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu dall’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff. L’ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha detto che l’esercito si limiterà a garantire la sicurezza senza entrare in contatto diretto con la popolazione: «C’è stata una buona risposta, organizzazioni non governative faranno parte della leadership». «È una sfida logistica – ha ammesso –. Non tutto sarà perfetto, specialmente nei primi giorni». Torna in mente un’altra sfida logistica: quel molo galleggiante costruito un anno fa dagli americani. Avrebbe dovuto scongiurare la carestia a Gaza. Costato 230 milioni di dollari, richiese quaranta giorni del lavoro di mille soldati e restò operativo meno di due mesi, dal 16 maggio a inizio luglio. Poi si arrese alle mareggiate.
Nella zona di Rafah, in quella nuova fascia di «sicurezza umanitaria» dove Israele pianifica di trasferire la popolazione, proseguono gli scontri con i miliziani estremisti palestinesi. Da giorni Hamas informa di essere impegnata in «feroci combattimenti» vicino a Rafah. Israele ha comunicato la morte di due soldati nel sud e riferito di aver colpito oltre 60 obiettivi in ventiquattr’ore. L’agenzia palestinese Wafa ha riferito di quattro morti, tra cui un neonato, nei raid sul campo profughi di Nuseirat, nel centro, e a Gaza City, nel nord. Colpito anche un peschereccio al largo della costa settentrionale: un uomo è morto e un altro è rimasto ferito. Con il decesso di alcuni feriti colpiti nelle scorse settimane, sarebbe salito a 52.760 il bilancio dei morti e a 119.264 quello dei feriti, secondo il ministero controllato da Hamas.
Le sirene sono tornate a suonare a Tel Aviv e nel centro di Israele per un missile balistico lanciato dallo Yemen. È stato intercettato. Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha scritto su X: «Gli Houthi continuano a lanciare missili iraniani contro Israele. Come promesso, risponderemo con forza in Yemen e ovunque sia necessario».