
I danni dei bombardamenti israeliani dei giorni scorsi a Teheran - Reuters
Appena una manciata di minuti ha separato il suono dalle sirene dal tonfo sordo dell’esplosione. L’edificio chirurgico, al centro del Soroka Medical center di Beer Sheva, nel sud di Israele, è stato investito in pieno. Anche i reparti degli edifici limitrofi, ha spiegato il direttore generale, Shlomi Kodesh, sono stati danneggiati. I pazienti, fortunatamente, erano già, da giorni, nei rifugi al piano terra.
Per questo non ci sono state vittime. Settantuno persone, però, in gran parte del personale, sono rimaste ferite mentre cercavano di arrivare nel bunker. Un quarto degli almeno 270 colpiti nei raid iraniani che nella notte tra mercoledì e giovedì hanno martellato lo Stato ebraico. Alcuni dei 25 missili scagliati hanno raggiunto la periferia di Tel Aviv, Jaffa, Holon è Ramat Gan. Il maggiore attacco dall’inizio dell’offensiva “Rising lion”, una settimana fa. Oltretutto l’epicentro è stato un ospedale, il più grande della regione meridionale, costretto a evacuare duecento malati, i tre quarti del totale, e ad operare a ranghi ridottissimi.
«Un crimine di guerra. Il regime degli ayatollah colpisce deliberatamente obiettivi civili», ha tuonato il ministro degli Esteri, Gideon Saar. Teheran, però, nega l’intenzionalità. Si tratterebbe – secondo la versione del capo della diplomazia, Abbas Araghchi – di un “danno collaterale”: nel mirino degli iraniani ci sarebbe stata una base militare nei paraggi e la clinica sarebbe stata colpita dall’onda d’urto. In ogni caso, «le strutture sanitarie devono essere rispettate», coinvolgerle nell’escalation è «spaventoso», hanno tuonato le principali organizzazioni internazionali, a partire dalla Croce rossa e dall’Oms.
Davanti alle pareti annerite dal fumo del Soroka, Benjamin Netanyahu ha rinnovato le minacce alla Guida suprema. «Un simile tiranno non può restare al potere. Eliminarlo? Tutte le opzioni sono aperte». Da una settimana, i raid israeliani attaccano centrifughe e siti nucleari. Ieri hanno puntato sul reattore ad acqua pesante di Arak, non operativo al momento, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e, di nuovo, Natanz, da dove proviene la gran parte del combustibile nucleare. Ma non si limitato a questi.
Nel mirino ci sono il programma missilistico e impianti militari – una trentina di comandanti sono stati uccisi e la metà delle rampe di lancio distrutte, secondo fonti di Tel Aviv – e le strutture strategiche, incluse le telecomunicazioni. L’obiettivo dichiarato è rendere inoffensivo il regime. Il che – il governo Netanyahu lo ha detto esplicitamente – potrebbe implicarne lo sgretolamento. «Il cambio al vertice non è fine ma un possibile risultato», ha ribadito ieri. La Repubblica islamica è consapevole di affrontare la minaccia più grave dalla nascita, nel 1979. Nemmeno la guerra con l’Iraq degli anni Ottanta ha rappresentato una sfida di pari proporzioni per gli ayatollah, già indeboliti dalle sanzioni internazionali – che ne hanno quasi dimezzato il Pil – e dalle ondate di proteste interne. «Il regime zombie», l’ha definito l’esperto del Carnegie Edowment di Washington. Finora sono, comunque, riusciti a resistere. E, a parole, sono determinati a farlo. Stavolta, però, a capovolgere la situazione potrebbero essere gli Stati Uniti. Ribaltando il diktat trumpiano di evitare «le guerre eterne», potrebbero decidere di intervenire sul terreno. Donald Trump minaccia da giorni di bombardare l’impianto atomico sotterraneo di Fordow. Solo Washington dispone della tecnologia – l’ordigno GBU-57 – in grado di penetrare nelle viscere della montagna e distruggere l’impianto. Almeno ufficialmente. Netanyahu, ha detto «di avere il potere di colpire qualunque sito iraniano», alludendo velatamente al fatto di disporre delle armi adatte.
Finora il presidente americano si è mantenuto in bilico. «Deciderò entro le prossime due settimane», ha detto ieri. Nel mentre, valuta seriamente di attaccare Fordow. E sarebbe ormai convinto della «necessità di disattivarlo». L’opzione di una trattativa, comunque, non è ancora scartata. Come anticipato da Reuters, l’escalation non ha interrotto i colloqui diretti con Teheran. Il rappresentante iraniano Araghchi e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, nell’ultima settimana, si sarebbero sentiti più volte al telefono e a fare la prima chiamata sarebbe stata Washington.
Le conversazioni si sarebbero concentrate su due questioni. L’Iran, innanzitutto, avrebbe dato disponibilità a riprendere i negoziati con gli Stati Uniti in Oman se questi ultimi avessero convinto Tel Aviv a fermare l’offensiva. Washington, inoltre, avrebbe ribadito la proposta di fine maggio – ritenuta «inaccettabile» – di creare un consorzio regionale per arricchire l'uranio al di fuori dell'Iran. Teheran ha fatto del programma nucleare – costosissimo, specie in un momento di crisi – un simbolo di indipendenza dall’Occidente. Un tasto sensibile per un regime che ha fatto dell’anti-americanismo uno dei propri tratti distintivi. Con le armi spuntate, gli ayatollah giocano la “carta Hormuz”, minacciando la chiusura dello snodo per cui passa un quinto del petrolio mondiale in caso di intervento Usa.
«È una possibilità concreta», ha detto il Comitato per la sicurezza del Parlamento. Retorica a parte, l’Iran non smette di cercare sponde internazionali. Nel fine settimane, Araghchi sarà in Turchia per il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, a cui partecipa la gran parte dei Paesi musulmani. Oggi, a Ginevra, vedrà i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Gran Bretagna, più l'Alta rappresentante europea per la Politica estera.
Sullo sfondo, però, anche altre potenze si muovono. Vladimir Putin e Xi Xinping si sono parlati sull’urgenza della de-escalation. L’Iran è un alleato storico della Russia. «E il nostro sostegno resta evidente», ha ribadito ieri il Cremlino. Finora, tuttavia, Mosca ha mantenuto una posizione defilata tanto da far ipotizzare un intreccio, con relativi scambi, tra il conflitto mediorientale e quello ucraino.