C hi ha vinto la guerra? Tutti. Chi l’ha persa? Di conseguenza, nessuno. Non è la realtà, ma la post-verità che affolla i media della seconda era Trump e che, inevitabilmente, ha caratterizzato anche questa Guerra dei dodici giorni, se la tregua reggerà. Israele ha attaccato preventivamente sostenendo che l’Aiea certificava l’imminenza della fabbricazione della bomba atomica da parte di Teheran. “Verità” poi sbugiardata (cinque giorni dopo centinaia di morti) dal direttore dell’Aiea Rafael Grossi. L’Iran ha assunto la posizione della “vittima” fin dall’inizio, Ali Khamenei è scomparso e l’opposizione con lui, travolta dalle folle spedite in piazza dal regime al grido di “morte all’America e ai sionisti”. Donald Trump è stato trascinato in guerra da Israele (anche se non è che gli spiacesse farlo, così sembra) per annientare il progetto degli ayatollah di raggiungere la bomba. Quattordici bombe perforanti, miliardi di dollari per un attacco che ha perforato la montagna di Fordow, rasi al suolo altri due acceleratori di uranio con il risultato di produrre macerie, ma non mandare in macerie il progetto iraniano di nucleare. Anzi: dopo lo stop ai tecnici dell’Aiea per i controlli sugli impianti deciso dal Parlamento, Teheran cavalca velocemente verso l’uscita dal Trattato di non proliferazione: la stessa strada seguita negli anni scorsi dalla Corea del Nord e dal Pakistan che hanno ammesso di possedere la bomba solo dopo innumerevoli test che lo provavano nei fatti.
A costo di apparire retorici, chi ha perso la guerra sono in realtà in molti: i seicento iraniani morti sotto le bombe dei caccia di Israele e i trenta israeliani prima di tutti. Dopo di loro la componente meno ideologica del popolo iraniano che da anni tenta di liberarsi di un regime opprimente e anche questa volta vede svanire la speranza del “change” che brandiva con scopo secondario Netanyahu e che Trump gradiva. Insieme a loro, non troppo da lontano, la gente che continua a morire a Gaza per un pugno di farina nella prima guerra di oltre un anno e mezzo fa. O chi nei palazzi di Kiev vede ancora, tre anni e mezzo dopo, arrivare i droni kamikaze russi prodotti (non a caso) dall’Iran. Altre due tessere di un puzzle che, in troppi ormai, si sono abituati a chiamare il Grande gioco tra Donald Trump e Vladimir Putin.
Sul carro dei vincitori della guerra d’Iran, invece, ci sono saliti tutti. Uno dopo l’altro nella speranza di non rimanere a terra. Netanyahu ha già detto che i due obiettivi sono stati raggiunti: neutralizzare il nucleare e i missili iraniani. Trump ha fatto invece propria la frase choc del premier che cade sempre in piedi: fare la guerra per arrivare alla pace. Il pacificatore di Pennsylvania Avenue rivendica già il ruolo di risolutore di questa crisi, quasi non l’avesse provocata anche lui. Ha vinto Khamenei che è rimasto in sella, nonostante fosse diventato il “bersaglio” grosso dell’intelligence israeliana e americana, isolato da giorni al punto di comunicare con i “pizzini” per evitare di essere individuato nei vari nascondigli che ha frequentato. Hanno vinto i Pasdaran, nonostante la decimazione dei vertici perché ora hanno eroso una parte del potere alla Guida suprema che sta assumendo sempre più un potere simbolico in virtù del “golpe bianco” dei Guardiani della Rivoluzione. Sarebbe ancora lunga la lista dei rivendicatori di vittoria. Titolo postumo, come la post-verità che ha avviato questa guerra. La verità è che l’assetto definitivo del “nuovo Medio Oriente” come lo chiama il premier israeliano si vedrà solo quando si saranno diradati polvere e fumo dei missili lanciati in questi giorni.