Libano: 5 anni dopo l'esplosione al porto, la verità resta lontana
di Camille Eid
A Beirut morirono 246 persone. I familiari delle vittime: avevano promesso risposte in 5 giorni, invece questo tempo è passato invano. Le accuse all'élite locale e il nodo del disarmo di Hezbollah

Gli ultimi raggi del sole si ritirano timidamente dietro la valle della Bekaa, tingendo di rosso porpora le colonne romane che fanno da cornice al Festival internazionale di Baalbek. Per gli spettatori accorsi per assistere alla Carmen, l'opera lirica di Georges Bizet, sembrano lontanissimo l’autunno scroso in cui questi stessi luoghi di impareggiabile bellezza venivano colpiti dai caccia israeliani nella guerra durata due mesi contro Hezbollah. O forse preferiscono non pensarci nel tentativo di aggrapparsi a un apparente ritorno alla normalità. Che ancora non si vede appieno, nonostante la fine, 7 mesi fa, del lungo stallo istituzionale con l'elezione di un nuovo presidente della Repubblica e la formazione di un governo con pieni poteri.
Il “periodo di grazia” ora sembra finito e le scadenze incalzano nuovamente. Ieri, il Paese dei cedri ha commemorato l'anniversario della devastante esplosione al porto di Beirut. «Le autorità – dice la figlia di una delle 246 persone uccise – avevano promesso di dare risposte in cinque giorni, invece sono già passati cinque anni». Per due anni gli inquirenti locali sono stati costretti a sospendere le indagini a causa del muro di gomma eretto dall'élite politica libanese. Uno spiraglio sembra ora aprirsi dato che il giudice Tareq Bitar è tornato a interrogare degli ex funzionari e dovrà presto pubblicare il suo atto d'accusa.
Oggi, invece, si capirà la piega che prenderà l'annosa questione del “monopolio delle armi da parte dello Stato”, un eufemismo per evitare il termine più crudo “disarmo” di Hezbollah. Incalzato dagli americani, il governo libanese è chiamato a pronunciarsi su un preciso calendario con voto a maggioranza. Una procedura assai insolita per un Paese da sempre retto sulla “democrazia consensuale” che conferisce ai tre principali gruppi religiosi – cristiani, sunniti e sciiti – un implicito diritto di veto. Un'eventuale opposizione alla misura da parte dei ministri sciiti rischia di far precipitare nuovamente il Libano nel caos. Il presidente Joseph Aoun si è appellato giovedì a «coloro che hanno resistito all'aggressione» – ossia la base popolare di Hezbollah – per invitarli a «scommettere unicamente sullo Stato libanese, altrimenti i vostri sacrifici sarebbero vani e lo Stato crollerebbe».
«L'ora della verità» evocata da Aoun troverebbe facilmente un “compromesso alla libanese” se non fosse strettamente legata ai piani proposti per la regione. Gli spettri di una nuova spartizione del Medio Oriente sono infatti tornati a veleggiare dopo i massacri di Sweida, la roccaforte della minoranza drusa in Siria. L'emissario americano incaricato del dossier libanese, Thomas Barrack, ha suscitato non poco allarme affermando che «se il Libano non si muove in tempo, tornerà a far parte di Bilad al-Sham», usando la denominazione araba della Grande Siria. Come minimo, ha avvertito ancora Barrack, il Libano non vedrà un solo centesimo degli aiuti necessari per la ricostruzione, stimati tra 8 e 11 miliardi di dollari.
Tensioni che riaffiorano nella vita quotidiana. Così anche un incontro tra vecchi compagni di università diventa un condensato di dossier aperti. Il pranzo, 45 anni dopo la fine delle lezioni, diventa un condensato di dossier aperti quello che viene a galla al pranzo che ha riunito, dopo 45 anni di strade diverse, dieci ex compagni d'università. Sembra la rievocazione vivente de “I disorientati” di Amin Maalouf. Youssef porta con sé le difficoltà cui è confrontata la popolazione della fascia frontaliera con Israele; Mourched gli ostacoli che si frappongono al “rientro volontario” dei profughi siriani nel loro Paese, finora appena il 10 per cento degli oltre due milioni presenti in Libano; Ahlam e Picole il ronzio incessante dei droni israeliani, come a ricordare che hanno in mano la sorte di chi vive a Beirut. Tutti quanti sperano che i propri figli possano rientrare dall'estero senza problemi per passare le vacanze estive con loro. «Quale futuro attende il Libano – si chiede Claudine – quando la massima aspirazione dei giovani è quella di partire alla fine degli studi?». Dal balcone della casa il bel panorama è quasi interamente oscurato dalle fortificazioni dell'ambasciata americana, il complesso Usa più esteso al mondo. Molti libanesi ritengono che le dimensioni spropositate della struttura assomigli più a una base militare che a una rappresentanza diplomatica. «Lì vengono convocati i nostri ministri per ricevere nuove istruzioni», commenta Ghassan ammiccando. La settimana scorsa, il Libano intero si è fermato per il funerale del compositore Ziad Rahbani, una figura centrale nel mondo del teatro e della cultura locale, nonché figlio di Fairouz, la signora della canzone libanese. In una sua opera degli anni Ottanta, “Lungometraggio americano”, Ziad paragona con sarcasmo il Libano a un grande manicomio in cui a ogni personaggio corrisponde una precisa psicosi sociale. Ci si chiede se il lungometraggio sia prossimo alla fine oppure destinato a durare ancora a lungo.
© riproduzione riservata
Il “periodo di grazia” ora sembra finito e le scadenze incalzano nuovamente. Ieri, il Paese dei cedri ha commemorato l'anniversario della devastante esplosione al porto di Beirut. «Le autorità – dice la figlia di una delle 246 persone uccise – avevano promesso di dare risposte in cinque giorni, invece sono già passati cinque anni». Per due anni gli inquirenti locali sono stati costretti a sospendere le indagini a causa del muro di gomma eretto dall'élite politica libanese. Uno spiraglio sembra ora aprirsi dato che il giudice Tareq Bitar è tornato a interrogare degli ex funzionari e dovrà presto pubblicare il suo atto d'accusa.
Oggi, invece, si capirà la piega che prenderà l'annosa questione del “monopolio delle armi da parte dello Stato”, un eufemismo per evitare il termine più crudo “disarmo” di Hezbollah. Incalzato dagli americani, il governo libanese è chiamato a pronunciarsi su un preciso calendario con voto a maggioranza. Una procedura assai insolita per un Paese da sempre retto sulla “democrazia consensuale” che conferisce ai tre principali gruppi religiosi – cristiani, sunniti e sciiti – un implicito diritto di veto. Un'eventuale opposizione alla misura da parte dei ministri sciiti rischia di far precipitare nuovamente il Libano nel caos. Il presidente Joseph Aoun si è appellato giovedì a «coloro che hanno resistito all'aggressione» – ossia la base popolare di Hezbollah – per invitarli a «scommettere unicamente sullo Stato libanese, altrimenti i vostri sacrifici sarebbero vani e lo Stato crollerebbe».
«L'ora della verità» evocata da Aoun troverebbe facilmente un “compromesso alla libanese” se non fosse strettamente legata ai piani proposti per la regione. Gli spettri di una nuova spartizione del Medio Oriente sono infatti tornati a veleggiare dopo i massacri di Sweida, la roccaforte della minoranza drusa in Siria. L'emissario americano incaricato del dossier libanese, Thomas Barrack, ha suscitato non poco allarme affermando che «se il Libano non si muove in tempo, tornerà a far parte di Bilad al-Sham», usando la denominazione araba della Grande Siria. Come minimo, ha avvertito ancora Barrack, il Libano non vedrà un solo centesimo degli aiuti necessari per la ricostruzione, stimati tra 8 e 11 miliardi di dollari.
Tensioni che riaffiorano nella vita quotidiana. Così anche un incontro tra vecchi compagni di università diventa un condensato di dossier aperti. Il pranzo, 45 anni dopo la fine delle lezioni, diventa un condensato di dossier aperti quello che viene a galla al pranzo che ha riunito, dopo 45 anni di strade diverse, dieci ex compagni d'università. Sembra la rievocazione vivente de “I disorientati” di Amin Maalouf. Youssef porta con sé le difficoltà cui è confrontata la popolazione della fascia frontaliera con Israele; Mourched gli ostacoli che si frappongono al “rientro volontario” dei profughi siriani nel loro Paese, finora appena il 10 per cento degli oltre due milioni presenti in Libano; Ahlam e Picole il ronzio incessante dei droni israeliani, come a ricordare che hanno in mano la sorte di chi vive a Beirut. Tutti quanti sperano che i propri figli possano rientrare dall'estero senza problemi per passare le vacanze estive con loro. «Quale futuro attende il Libano – si chiede Claudine – quando la massima aspirazione dei giovani è quella di partire alla fine degli studi?». Dal balcone della casa il bel panorama è quasi interamente oscurato dalle fortificazioni dell'ambasciata americana, il complesso Usa più esteso al mondo. Molti libanesi ritengono che le dimensioni spropositate della struttura assomigli più a una base militare che a una rappresentanza diplomatica. «Lì vengono convocati i nostri ministri per ricevere nuove istruzioni», commenta Ghassan ammiccando. La settimana scorsa, il Libano intero si è fermato per il funerale del compositore Ziad Rahbani, una figura centrale nel mondo del teatro e della cultura locale, nonché figlio di Fairouz, la signora della canzone libanese. In una sua opera degli anni Ottanta, “Lungometraggio americano”, Ziad paragona con sarcasmo il Libano a un grande manicomio in cui a ogni personaggio corrisponde una precisa psicosi sociale. Ci si chiede se il lungometraggio sia prossimo alla fine oppure destinato a durare ancora a lungo.
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