Le testimonianze: «Noi, figli delle vittime del 7 ottobre, che abbiamo detto no alla guerra a oltranza»

Le interviste a Yonatan Zeigen, figlio di Vivian Silver, la storica pacifista uccisa a Be’eri, e a Maoz Inon, i cui genitori furono massacrati nel kibbutz Nir Am
October 7, 2025
Le testimonianze: «Noi, figli delle vittime del 7 ottobre, che abbiamo detto no alla guerra a oltranza»

Yonatan Zeigen, figlio di Vivian Silver, la pacifista uccisa a Be’eri: «Dal 7 ottobre anche una nuova occasione alla pace»

Frenesia e paralisi. Tutto è cambiato con il 7 ottobre e ogni cosa è rimasta congelata a quella data. Un punto di rottura e, insieme, un giorno lungo lungo due anni per le società israeliana e palestinese, per il Medio Oriente e per l’ordine internazionale. E per Yonatan Zeigen. «Sì anche per me, a livello personale, l’attacco di Hamas ha rivoluzionato la mia esistenza. Allo stesso tempo, però, sono ancora fermo a quell’alba quando, nella mia casa di Tel Aviv, sono stato svegliato dal suono delle sirene. Appena capito quanto stava accadendo ho scritto a mia madre, Vivian Silver». Una donna e un simbolo: storica attivista per la pace e femminista, fondatrice di Women wage peace, mentre era rinchiusa nel bunker, con i miliziani fuori dalla porta, aveva lanciato un appello a lavorare per una soluzione politica del conflitto in un’intervista alla radio pubblica Galei Zahal. Di fronte a queste parole, il giornalista l’aveva liquidata frettolosamente, si era lamentata via WhatsApp con il figlio. «Fino all’ultimo, a 74 anni, ha continuato la sua lotta». Nello scambio di messaggi, Vivian aveva cercato di smorzare la tensione con una punta di ironia. «Ti prego, dì qualcosa». «Qualcosa. Cerco di non peredere l’umorismo». Il suo addio era stato il solito «arrivederci». Yonatan avrebbe saputo solo cinque settimane dopo che sua mamma era stata uccisa alla fine della conversazione virtuale: l’incendio della casa aveva incenerito il cadavere, facendo ipotizzare il sequestro da parte del gruppo armato. Era stato Yonatan a chiamare gli antropologi forensi per scoprire la verità. Da allora, il 36enne, mediatore sociale, compagno di Maayan, padre di tre bimbe, ha raccolto il testimone di Vivian. «Ho lasciato il lavoro per dedicarmi a tempo pieno a contribuire a fermare l’orrore di Gaza e a costruire un futuro condiviso per israeliani e palestinesi. Il cambiamento, dunque, è stato grande. Non è mutato ciò in cui credevo ma ho rimodulato le mie priorità: senza pace c’è presente né futuro per me e quanti amo. Allo stesso tempo, questo continuare a tenere Vivian come emblema, mi ha impedito di congedarmi davvero da lei. Non sono ancora riuscito a vivere davvero il lutto. Qualcosa di simile è accaduto al resto degli israeliani e dei palestinesi. Siamo ancora nel pieno del trauma, incapaci di elaborarlo. Resteremo così fino a quando la carneficina nella Striscia andrà avanti e gli ostaggi non torneranno a casa. Non avrei mai immaginato che andasse avanti tanto a lungo. Pensavo, speravo che il mondo intervenisse in modo più tempestivo ed efficace. E il governo di Benjamin Netanyahu si sfaldasse sotto il peso delle proprie responsabilità», racconta Yonatan mentre finisce di impacchettare le ultime cose.
Per il secondo anniversario del 7 ottobre, ha deciso di tornare a Be’eri. Guiderà verso sud, attraverso il Neghev, lungo la Road 232, l’autostrada della strage dove, due anni fa, i miliziani di Hamas avevano inseguito i civili in fuga, lasciando dietro di sé corpi e carcasse d’auto bruciate. Oltrepasserà il cancello giallo, a cinque chilometri scarso dall’enclave, riparato da tempo, dove i vigilanti sono ormai tornati al loro posto insieme a un centinaio di abitanti – un decimo dei residenti –, anche se non in modo stabile. Percorrerà il vialetto del quartiere Zeitun, sui cui lati ci sono le facciate annerite delle decine di abitazioni attaccate. Su ognuna, una foto, ricorda i proprietari uccisi: 105 in totale, altre trenta sono stati rapiti. Di questi ultimi, sette – ormai deceduti – sono ancora nella Striscia. Il volto sorridente di Vivian spunta sulle assi annerite di quella che un tempo era il patio di una villetta. «La casa di mia madre non c’è più. Ma Be’eri non è solamente un luogo fisico: è una comunità. E quella è viva. Sono molto legato al kibbutz, dove ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Voglio, dunque, essere là martedì. Per ricordare quanti ci sono più, insieme a chi è rimasto».
Una memoria impregnata di dolore. Ma anche di speranza. «Già, speranza. Il 7 ottobre ha avuto esiti catastrofici per Israele, la Palestina e il mondo. Ha, tuttavia, aperto anche una finestra di opportunità nuova e inedita. Riusciremo a coglierla? Io credo di sì. Non sono un ingenuo. Qualche tempo fa, però, sono stato a Berlino. Mi sono aggirato per i memoriali che testimoniano l’oscura epoca del Terzo Reich, la sua ascesa, il regime del terrore, la l’indottrinamento dell’opinione pubblica», sottolinea Yonatan, scandendo le parole, consapevole della gravità del paragone. Poi aggiunge: «La Germania è riuscita ad uscire da questo baratro. I tedeschi si sono lasciati quel passato alle spalle e si sono incamminati sulla strada della democrazia, creando un Paese più giusto e libero. Non completamente, certo. Ma i progressi sono stati enormi. Immagino un’evoluzione analoga per gli israeliani e i palestinesi: metteremo fine al bagno di sangue e edificheremo due nazioni capaci di vivere una accanto all’altra».

Maoz Inon, i suoi genitori sono stati massacrati nel kibbutz Nir Am: «Possiamo abbracciare il conflitto e superarlo»

«Quando c’è ignoranza c’è paura, quando c’è paura c’è odio, quando c’è odio c’è la guerra. Per questo ero in qualche modo preparato al 7 ottobre 2023, a perdere i miei genitori e tanti amici». A rendere straordinario il messaggio di Maoz Inon non è solo il contenuto, ma la forma, o meglio, la voce. È decisa, impetuosa, allegra. Come se fosse esplosa al centro di una radura dopo aver attraversato la lunga selva del dolore, dopo esser stata attraversata dalla voce degli altri, da una moltitudine eterogenea portata poi a sintesi. Come se il vero superamento del male non possa essere un fatto individuale, ma solo universale. Due anni fa i genitori, Bilha e Yacovi, 76 e 78 anni, sono stati trucidati dai miliziani di Hamas nel kibbutz Nir Am, distante due chilometri dal filo spinato che segna il confine con la prigione a cielo aperto di Gaza. La mattina del 7 ottobre Maoz ha preparato il caffè e acceso la televisione. Ha chiamato immediatamente il padre. Erano le 7.35. Yacovi Inon ha risposto: «Sì Maoz, siamo nella camera di sicurezza. Li sentiamo sparare». Nessuno ha risposto alla chiamata successiva, alle 7.45. Nel kibbutz Nir Am, Maoz è nato e cresciuto, nutrito dalla narrazione dell’odio, il muro di parole oltre a quello di cemento visibile dai confini dell’insediamento.
A trent’anni poi, la svolta, la fine di ciò che definisce un “coma politico”: «Avevo visto il mondo, l’Europa, l’America, l’Asia. Ma non conoscevo nulla dei palestinesi. Ero nato nella terra Santa, ma non sapevo cosa fosse il Ramadan, la storia di Cristo. Ignoravo l’altro da me». Così 20 anni fa nasce il Fauzi Azar Inn, il primo dei 50 bed and breakfast interreligiosi e interculturali di Nazareth, la capitale araba di Israele. Poi sono arrivati gli “Abraham hostels” in tutto il territorio israeliano, i circuiti turistici che tessono la Terra Santa di esperienze e incontri, di dialogo, di occasioni per conoscere “l’altro”.
«Ho cominciato la vita di condivisione con i miei fratelli palestinesi. È stato un successo, imprenditoriale e culturale. Gli israeliani hanno capito che occupare, opprimere e umiliare genera solo violenza», racconta Maoz, che insieme a 9mila connazionali ha presentato il 21 settembre una petizione in supporto al riconoscimento dello Stato di Palestina, abbracciato da Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia e altri sette Paesi nei giorni successivi, durante l’annuale Assemblea generale dell’Onu. Dallo stesso podio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha negato radicalmente questa possibilità, sostenendo di rappresentare il giudizio della stragrande maggioranza del Parlamento e della popolazione.
La fine della guerra a Gaza, i piani di ricostruzione, le nuove e immaginifiche cornici geopolitiche non significano il riconoscimento dell’altro. Ciò non scoraggia affatto Maoz: «La linea della storia non è piatta, ha dei sussulti. Dopo la guerra del Kippur, nel 1973, il primo ministro Golda Meir affermava che per generazioni non avremmo vissuto la riconciliazione. La propaganda era soffocante, impenetrabile, proprio come è oggi. Più del 70 percento degli israeliani era contrario ai negoziati, alla restituzione del Sinai in cambio della pace. Poi, nel 1977, la visita del presidente egiziano Sadat alla Knesset. In poche ore è cambiato tutto. L’anno successivo sono arrivati gli accordi di Camp David. Avevo tre anni. Oggi ci danno dei pazzi, ma il sogno e l’immaginazione sono gli unici strumenti per cambiare il reale, per rovesciarlo».
Realismo e utopia si sovrappongono nella voce di Maoz, diventano azione: «Ciò che accade a Gaza è una pulizia etnica inaccettabile. La comunità internazionale deve smetterla di guardare dall’altra parte, di nascondersi dentro vuoti discorsi. Bisogna agire. Ogni cultura, ogni civiltà può scegliere se farsi orrore o giustizia. Spetta a noi decidere. Me lo ha insegnato papa Francesco, durante il nostro incontro, nel maggio nel 2024. Dobbiamo abbracciare il conflitto, superarlo e prosperare. Siamo gli unici esseri viventi che possono risolverlo attraverso le parole. Io e tante altre persone nel mondo lavoriamo giorno e notte per rendere possibile l’inimmaginabile. Dove gli altri vedono disperazione, noi vediamo il futuro».

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