Kfar Aza, dove il 7 ottobre non è finito «Come possiamo pensare al domani»?

Nel kibbutz diventato simbolo del massacro di Hamas, tutto è rimasto come quell’alba. Yaeli era lontana: «Ofir era ferito, mi ha chiesto aiuto, invano». Lei ci ha messo un mese per tornare lì
November 5, 2023
Kfar Aza, dove il 7 ottobre non è finito «Come possiamo pensare al domani»?
Reuters | Ciò che è rimasto di una casa di Kfar Aza dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre. I terroristi hanno dato fuoco alle abitazioni con i civili dentro
Yaeli ci ha messo un mese per trovare il coraggio. Ora, però, è qui, di fronte alla soglia. Si concentra per fare il passo necessario a varcarla. Alla fine entra nella casa di Ofir, il suo miglior amico. O, almeno, quel che ne rimane. Uno scheletro annerito dal fumo con macerie al posto del pavimento sul quale sono sparsi pezzi di mobili. Yaeli non c’era il 7 ottobre. Si era fermata a dormire da alcuni amici fuori dal kibbutz.
Là l’ha raggiunta la telefonata di Ofir. «L’avevano colpito, perdeva molto sangue e chiedeva aiuto. Non sono riusciti, però, a raggiungerlo. Quando, oltre 48 ore dopo, nel pomeriggio del 9 ottobre, l’esercito ha ripreso il controllo di Kfar Aza, Ofir era morto», racconta la giovane in fretta, come se, insieme alle parole, volesse sputare fuori tutto il suo dolore. Poi si volta di scatto ed esce, coprendosi il volto con la visiera del cappellino scuro, schiacciato sulla coda bionda. «Non ci posso stare là dentro. Non sai quante feste abbiamo organizzato in quel soggiorno. E ora...». Il corpo di Ofir è stato identificato la settimana scorsa. Con lui sono 52 le vittime ufficiale della comunità di 750 abitanti. Almeno al momento. Potrebbero di più – sessanta –, ma il bilancio definitivo si avrà solo quando termineranno gli esami dei medici legali. Altri diciassette abitanti sono stati rapiti e sono ora nelle mani di Hamas.
Kfar Aza ovvero il villaggio di Gaza. Meno di tre chilometri lo separano dal confine della Striscia e dal suo muro ipertecnologico, costato l’equivalente di circa 250mila euro e terminato nel 2021. Una barriera impenetrabile. Eppure, all’alba di un mese fa, tremila miliziani del gruppo armato islamista sono riusciti a passare e hanno razziato e decimato ventidue comunità del Sud di Israele. Settanta di loro hanno fatto irruzione a Kfar Aza alle 6.30 del mattino dal lato occidentale, quello dove si trova la parte più antica del kibbutz, fondato nell’agosto del 1951 da rifugiati ebrei provenienti da Marocco ed Egitto. «Pian piano, però, questa era diventata la parte destinata ai giovani, single e coppie, che volevano una casa propria», afferma Hava Dann, 34 anni, uno dei pochi residenti che va tutti i giorni nella comunità per prendersi cura degli animali e controllare la fabbrica di plastica, ora inattiva.
Il vialetto degli “under 30”, lo chiamavano. Ora, per tutti, è “il vialetto della strage”. La quarantina di abitazioni color crema che si affacciano sono state distrutte una ad una dagli assalitori, con bombe e granate. In molte è stato appiccato il fuoco per fare uscire i residenti dai bunker dove si erano nascosti e ucciderli a colpi di Kalashnikov, come testimoniano i bossoli per terra. Silvan Elkabets, 23 anni, e il fidanzato, Naor Hasidim, 22 anni – dirimpettai di Ofir – sono morti così.
«Hanno inviato l’ultimo messaggio alle 8.50. Dicevano che erano chiusi nel rifugio. Poi più niente – aggiunge Hava Dann –. Li hanno trovati dietro il divano, con fori di proiettile sul petto e la testa. La fodera bianca era tappezzata di sangue».
Poco più avanti c’è la casa di Hadar e Itay Bervichensky che hanno fatto da scudo ai figli gemelli di dieci mesi e li hanno salvati. E, ancora, quella di Bador Hassadim, 23 anni, di Nizan Libstein, 19 anni, di Daniel Pened, 23 anni. Ragazzi e bambini sono la gran parte delle vittime: oltre quaranta tra uccisi e sequestrati sono minori, secondo i dati delle forze armate. Alcuni sarebbero stati decapitati. Tanti seviziati prima del “colpo di grazia“.
Proprio per l’accanimento sugli abitanti da parte degli uomini di Hamas – spesso anche loro ragazzini –, Kfar Aza resta una delle pagine più dolorose del “sabato nero” del 7 ottobre in cui 1.400 israeliani, in gran parte civili, sono stati massacri, 3.300 i feriti, 242 gli ostaggi catturati. «Mia figlia Bar ce l’ha fatta. Merito del fidanzato, Eden, che è riuscito a nascondersi tra i cespugli e l’ha portata fuori». Anche i genitori di Yali sono vivi.
«Mio padre forse perderà l’uso delle mani. Si trovava con mia madre nella “safe room” quando i terroristi sono arrivati. Hanno cercato in ogni modo di buttare giù la porta ma mio padre, da dietro, faceva resistenza. Alla fine, hanno scagliato contro un ordigno. L’esplosione gli ha causato profonde ferite nelle braccia e ora è presto per capire se dovranno amputargliele». «Sono stati perpetrati così tanti orrori. So che ora molti vogliono negare, ma io li ho visti». Simcha Dizengoff è un volontario di Zaka, il servizio di emergenza che si occupa di raccogliere i cadaveri per la sepoltura. È arrivato a Kfar Aza l’11 ottobre. «Il tanfo, era terribile. In una casa ho trovato un’intera famiglia, dilaniata dalle bombe. Prima li colpiti con un’arma da fuoco poi, per essere sicuri che morissero, hanno scagliato loro contro una granata. I genitori si erano gettati addosso ai bambini per proteggerli, invano...».
Kfar Aza, un mese dopo è un groviglio di storie ancora da sciogliere. Il governo israeliano ha chiamato le squadre di archeologi per dare una mano nelle indagini. Nel frattempo, il paesaggio è rimasto congelato a quell’alba violenta. Macerie e assenze, ovunque. I sopravvissuti sono alloggiati negli alberghi di Eilat, sul Mar Morto, Tel Aviv e Gerusalemme. Altri hanno preferito andare da parenti o amici. Come i superstiti delle 22 comunità devastate da Hamas, non sanno se o quando potranno tornare, se il kibbutz potrà essere ricostruito né quanto tempo ci vorrà.
«Non possiamo pensare al futuro. Prima devono tornare a casa gli ostaggi», dice Ruth. Hava annuisce, neanche lui riesce a immaginare il domani. «I due bambini che ogni giorno giocavano con i miei figli sono stati presi. Forse si trovano in un tunnel sottoterra, non so li rivedremo. Faccio fatica a dormire, a mangiare, come posso avere la forza di fare speculazioni su quanto accadrà?»
Kfar Aza – al pari di Be’eri, Nir Oz, Re’im – non è solo un luogo – forse “il luogo” per antonomasia – della geografia del dolore. È la rappresentazione visiva dello stato d’animo collettivo degli israeliani per i quali, dal punto di vista emotivo, il 7 ottobre non è ancora finito. Eppure, piano piano, il futuro inizia ad insinuarsi nelle manifestazioni di solidarietà con i familiari degli ostaggi come nei raduni di volontari che cercano di dare a una mano ai superstiti.
Sabato scorso, tra la folla che dimostrava per chiedere il ritorno a casa dei rapiti, alcuni gridavano, rivolti al governo: «Che cosa ti proponi di fare per garantire la nostra sicurezza? Quali sono i tuoi obiettivi?». Domande alle quali, un mese dopo, Benjamin Netanyahu – al di là della retorica di «distruggere Hamas» non ha ancora dato risposta.

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