Il nunzio a Kiev: «Ecco perché in Ucraina non si crede alla tregua»
di Luca Geronico, inviato a Kiev
L'arcivescovo Kulbokas: «Quando manca la fiducia nelle relazioni internazionali, chi può ricostruirla? Fondamentale, in una situazione come questa, il ruolo della Chiesa, non solo quella cattolica»

Sono giorni particolarmente concitati questi subito dopo il Natale alla nunziatura apostolica di Kiev, fra continui appuntamenti e messaggi da tutto il mondo a cui rispondere, ma l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas trova il tempo di riflettere con Avvenire sul futuro dell’Ucraina, dove è nunzio apostolico dal 2021.
Monsignor Kulbokas, lei ha vissuto il quarto Natale di guerra in Ucraina. Si era sperato in una pausa nei combattimenti. Martedì Papa Leone si è detto rattristato perché «apparentemente la Russia ha rifiutato la richiesta di una tregua di Natale». Quali sono state le difficoltà poste da Mosca per una pace?
Non conosco assolutamente né i dettagli né come è stata affrontata la questione del Piano di pace. Tuttavia gli inviti al cessate il fuoco sono una costante, adesso da parte di Leone XIV, come prima da parte di Francesco: un modo per rafforzare le condizioni per le trattative. E se non si raggiunge un cessate il fuoco duraturo si chiede almeno una tregua per le festività come Natale e Pasqua.
Sulle trattative tra Kiev e Mosca mediate dagli Usa l’Ucraina sembra aver rinunciato all’ingresso nella Nato. Resta il nodo dello status e dei territoriali occupati e quello delle garanzie all’Ucraina. Lei ha avuto dei riscontri su questi due punti del negoziato?
Ho recentemente partecipato a una riunione a cui era presente un delegato ucraino per le trattative di pace: essendoci il segreto di Stato, non ha potuto darci alcun dettaglio. Comunque ho percepito che c'è ancora tanto da fare per raggiungere un risultato. Il negoziatore sottolineava che in gioco non vi è tanto lo status dei territori, ma l'esistenza stessa dello Stato ucraino. L'Ucraina vuole esistere, la gente vuole vivere: invoca «vittoria» ma questa parola non è percepita in modo corretto in Occidente. La «vittoria» è la sopravvivenza, vincere la guerra per gli ucraini significa poter sopravvivere. L’essenza della trattativa, anche a mio parere, non è lo status dei territori o altre questioni contingenti, ma raggiungere una pace vera e non fasulla.
Se è positivo trattare, la quotidianità in Ucraina non è cambiata: l'inverno sta ricominciando con gli attacchi alle infrastrutture energetiche. E la popolazione non sembra credere a una tregua.
Non conosco un solo ucraino che abbia riposto speranza in queste trattative percepite come molto difficili. Molti ripetono: «Abbiamo avuto il memorandum di Budapest, gli accordi di Minsk. Accordi sulla carta, ma poi cosa significano?» C'è disillusione e sfiducia verso queste trattative.
Però la gente comune lancia appelli «all'Europa: «Stiamo difendendo non solo i nostri confini, ma anche quelli della Polonia, della Lettonia, della Romania», dicono. Non vi il timore, dietro gli appelli, che il sostegno europeo, dopo quello degli Stati Uniti, si stia facendo più debole?
Lascerei rispondere gli specialisti. Vorrei tornare a quell’incontro con il negoziatore ucraino che si è espresso in questo modo: «L’Europa, senza il supporto degli sa, non è pronta a difendersi». Lo l'ha sottolineato molto: «L'Europa non ha la forza militare e politica per difendersi». Io non posso commentare più di tanto, perché per farlo bisognerebbe essere anche specialisti militari e politici.
Qual è il ruolo della Chiesa in questa situazione?
In una situazione in cui stiamo riportando molto ritardo, il ruolo della Chiesa è molto importante, anzi fondamentale: quando c'è una grande sfiducia nelle relazioni internazionali chi può infondere la fiducia? La Chiesa, non soltanto la Chiesa cattolica, ma tutti i credenti. Questo è stato sottolineato con l'Anno santo della speranza, ed anche da Papa Leone nel messaggio per la giornata mondiale della pace. Come si recupera la speranza? Si parte dalla preghiera e in secondo luogo con la testimonianza della carità, della vicinanza. Questa è molto importante perché quando i nostri fratelli si interessano della nostra situazione in Ucraina, quando cercano di capire le difficoltà, questo è già fratellanza che infonde speranza. E poi la carità: immagino sempre come ci osserva Dio Padre dal cielo. E quando ci vedrà più uniti, più fratelli di prima, arriverà il momento in cui dirà: «Bene, avete imparato la lezione, siete diventati davvero fratelli: adesso vi concedo la pace».
Come sta procedendo la mediazione del cardinale Matteo Zuppi per il rilascio dei prigionieri e dei minori?
Il cardinale Zuppi ha visitato sia l'Ucraina sia la Russia, ha intessuto i contatti: è un lavoro concreto con nomi e liste. È un lavoro faticoso, sono questioni complicate che non si risolvono in un giorno. È un lavoro coordinato tra il cardinale Zuppi e la segreteria di Stato: spero che prosegua, che prima o poi porti più risultati perché finora i risultatici sono stati risultati ma, tutto sommato, ancora del tutto insufficienti.
Arcivescovo Kulbokas: la tregua di Natale non c'è stata. Ma è chiaro che non esiste una soluzione militare. Quando il popolo ucraino comincerà avere un po' più di fiducia nelle trattative? Quando si comincerà sperare veramente nella pace?
Non ho una risposta chiara. Un aspetto molto importante è quello del rispetto del diritto perché vi è stata l'impressione, in questi anni, che gli accordi non esistano più, i confini non esistano più, che ciascuno può decidere: invado, non invado, faccio la guerra, pretendo quello o quell'altro. Mi attenderei che non solo uno o due Paesi, ma la comunità internazionale recuperi questo rispetto del diritto internazionale, non lasciando che siano uno o due Paesi a portare avanti le trattative secondo la propria visione, a volte personale, ma che sia davvero la “Società delle nazioni” a cercare la pace.
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