Gaza riaperta agli aiuti, ora cresce la protesta dei palestinesi contro Hamas
di Nello Scavo inviato a Gerusalemme
Il rientro della popolazione nella città distrutta. Si accelerano i tempi per il rilascio degli ostaggi israeliani

Chi scalzo, chi spingendo a testa bassa vecchie auto senza più carburante, a migliaia vagano tra le rovine di un paesaggio nel quale l’unico elemento rimasto al suo posto è il mare di Gaza. Il resto sono briciole di cemento e calce circondate dalla muraglia diventata trappola per due milioni di civili.
La repentina ritirata israeliana sulla “linea gialla” indicata dall’accordo per la tregua non è stata solo un ridislocamento. “La velocità con cui abbiamo indietreggiato è un messaggio a Netanyahu. Combattere in quel modo era diventato nefasto, senza risultato”. La voce che arriva nel passaparola di “radio esercito” non è isolata, mentre a Gaza il vuoto lasciato dalle Idf israeliane viene occupato dalle schermaglie tra bande, dai regolamenti di conti, dalla caccia al traditore. In attesa che arrivi il contingente internazionale a trazione araba. Prima però bisogna rilasciare gli ostaggi vivi e cominciare a trovare i corpi di quelli uccisi dalla prigionia di Hamas. Ci sono pressioni perché i primi vengano liberati già entro stasera, mentre SeIsraele si appresta a rilasciare quasi 2.000 palestinesi.
Fonti non confermate lasciano intendere che Donald Trump, quando martedì si recherà in Egitto per il summit internazionale sul Medio Oriente, potrebbe avvicinarsi proprio al confine sud di Gaza. Per ore si era sparsa la voce che tra i militari stranieri sarebbero arrivati duecento americani, addirittura per dirigere le operazioni. Troppo per qualunque fazione, anche la più moderata, che negli Usa hanno visto per anni il grande protettore delle avversate politiche statunitensi in tutto il Medio Oriente, dalla prima guerra del Golfo nel 1991 fino al sostegno alla campagna di Gaza. L’ammiraglio Brad Cooper, capo dell’Us Central Command (Centcom), si è recato ieri nella Striscia per discutere della stabilizzazione e del ruolo americano. Ma ha ribadito che «non vi sarà dispiegamento di militari Usa all’interno del territorio palestinese».
Il grande ritorno a Nord, per alcuni il quinto dall’inizio della guerra, per molti si è concluso con la conferma del peggiore dei presagi. «Le nostre case, la nostra terra e l’intero quartiere, ogni casa appartenuta alla nostra famiglia e ai nostri vicini, sono state completamente rase al suolo. Ridotte a una distesa arida di polvere gialla», ha scritto Ezzideen Shehab, medico neanche trentenne che in una lettera disperata riassume i due anni peggiori della sua vita. Anche Moumen al-Natour protesta contro Hamas, ma non mostra indulgenza per Israele. Ha fondato un movimento contro i crimini di Hamas, specialmente dopo essere stato torturato dalle milizie islamiste. «Perché date la colpa alla popolazione di Gaza? Abbiamo sofferto perché Hamas non ha voluto arrendersi - scrive in un lungo messaggio dalla Striscia -, ma perché colpire la popolazione civile indiscriminatamente?». Quello che è accaduto, da una parte e dall’altra, lo definisce “disumano”. Una indignazione che non gli fa perdere di vista «il dolore delle famiglie degli ostaggi». E’ come se Israele, nella sua smodata e sanguinaria reazione al 7 ottobre 2023, avesse perso l’occasione di guadagnare per una volta la simpatia dei palestinesi che avrebbero voluto fare a meno di Hamas e che oggi, in un modo o nell’altro, se la ritrovano ancora a negoziare la propria esistenza.
Che il patto per una tregua in 20 punti contenga diverse ambiguità, lo ha mostrato proprio Hamas che ha richiamato tra 6 e 7 mila membri del suo braccio armato per riaffermare il controllo sulle aree abbandonate dalle truppe israeliane. I fondamentalisti hanno nominato 5 governatori militari, alcuni provenienti dal comando di diverse brigate. Si sono viste unità in abiti civili e armi a tracolla, altre con le uniformi blu della polizia di Gaza. E’ il modo con cui i fondamentalisti intendono mostrare di non essere stati esautorati, e che chiunque verrà ad amministrare la transizione di Gaza dovrà trovare il modo per coinvolgere gli ex affiliati di Hamas. Un funzionario del gruppo armato ha sostenuto che “non possiamo lasciare Gaza in balia di ladri e milizie sostenute dall’occupazione israeliana. Le nostre armi sono legittime, esistono per resistere all’occupazione e rimarranno tali finché l’occupazione continuerà”. E da Nord giungono notizie di spedizioni punitive contro affiliati a gruppi concorrenti di Hamas, mentre sono riprese le faide dei clan che si contendono il controllo del territorio e sperano di ottenere un ruolo nella ricostruzione.
Oggi proprio dal confine settentrionale sono attesi i primi convogli umanitari inviati dalle Nazioni Unite, che dopo essere state attaccate e screditate dalla propaganda israeliana, proprio Israele lascerà entrare dal proprio territorio, non dal confine sud con l’Egitto, affidando di nuovo alle agenzie Onu la distribuzione degli aiuti, data l’incapacità dei mercenari della controversa “Gaza Humanitarian foundation”, di governare una sistema capillare in tutta la Striscia. L’agenzia israeliana che gestisce il trasferimento degli aiuti umanitari (Cogat) ha confermato che già ieri i primi camion sono entrati a Gaza. Trasportavano «cibo, attrezzature mediche, forniture per i rifugi di fortuna, carburante per operazioni essenziali e gas da cucina». Mentre il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha annunciato di aver iniziato a intensificare le sue operazioni.
Ezzideen Shehab, il medico diventato trentenne sotto le bombe, dice che un giorno forse scriverà un libro, per raccontare milioni di punti di sutura che non ricuciranno per anni le relazioni. Lui, musulmano, tra i suoi appunti ne ha ritrovato uno il cui significato tutti possono comprende: «L’Ultima Cena del mio popolo», ha scritto. Gaza è perduta, «ma il mondo - dice - adesso dovrà ricordare, e se non lo farà, allora noi, i vivi, saremo come morti invano, e i morti saranno morti due volte».
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