Io, medico di Gaza dico: Hamas si è nutrito della nostra sofferenza
La testimonianza: tornato a casa, ho trovato solo macerie. Il mio popolo è stato sconfitto, pur non combattendo alcuna guerra

“Sono un medico a Gaza. Ogni giorno mi muovo tra le rovine, ricucendo ferite che il mondo non vedrà mai“. Ezzideen Shehab si era laureato poco prima del 7 ottobre 2023. È palestinese, musulmano, ama Gaza, odia Hamas. E in questa disperata lettera lo scrive con la rabbia della vittima e la speranza del sopravvissuto. Da due anni tiene un diario di guerra di tanto in tanto recapitato all’esterno. Una fonte preziosa per conoscere le mosse dei fondamentalisti e l’umore di una popolazione stremata. “La sofferenza esige di essere testimoniata“, dice Ezzideen che un giorno vorrebbe che i suoi due anni di guerra diventassero un libro. Un atto di accusa contro la crudeltà del conflitto, soprattutto una denuncia contro Hamas che non ha protetto il popolo che si era candidata a governare nella Striscia, esponendolo alla spietata reazione delle forze armate israeliane. Fino a ieri diceva di non voler fuggire da Gaza, di contribuire a tramandare attraverso la sua voce quella “memoria che non può essere cancellata”. Gli è rimasto un lavoro, in questi due anni svolto senza stipendio. Non gli è rimasto l’ospedale e neanche la casa che aveva lasciato a Nord, ieri mattina trovata completamente polverizzata. Non sa cosà farà, intanto ci ha scritto. “Due anni fa, in un venerdì che ormai sembra fuori dal tempo, mio padre preparò un banchetto. Era un modo per celebrare la vita, la mia laurea, il mio ritorno, la promessa di un futuro. La tavola era imbandita, non solo di cibo, ma anche di fede: la fede tacita che il domani sarebbe esistito”. Quello che non sapeva è che quella festa ”sarebbe invece stata l'Ultima Cena del mio popolo”. Tra complicità e indifferenza. “Ma il mondo adesso dovrà ricordare e se non lo farà, allora noi, i vivi, saremo come morti invano, e i morti saranno morti due volte”. Ecco la sua lettera. (Nello Scavo)
Fin dalle prime ore del mattino, io e la mia famiglia viviamo in uno stato di totale collasso psicologico. Oggi abbiamo visto che le nostre case, la nostra terra e l'intero quartiere, ogni casa appartenuta alla nostra famiglia e ai nostri vicini, sono state completamente rase al suolo. Rase al suolo. Ridotte a una distesa arida di polvere gialla. Fin dalle prime luci dell'alba, abbiamo vissuto appieno il significato della sconfitta. Abbiamo perso più di settanta membri della nostra famiglia. Abbiamo perso la nostra terra. Ora non abbiamo una casa in cui tornare, nessun muro a proteggerci, nessun posto da chiamare nostro. E poi, uno dei leader di Hamas appare in televisione dichiarando che «il popolo non è stato sconfitto», che «Gaza ha resistito e ha combattuto una guerra storica».
Che la storia lo registri: io, il dottor Ezzideen Shehab, di Gaza, insieme alla mia famiglia, ai miei amici e alle loro famiglie, non abbiamo combattuto alcuna guerra. Siamo stati vittime di un annientamento innescato da Hamas dalle nostre case, solo per vedere l'esercito israeliano piombare su di noi e scatenare tutta la sua crudeltà sui civili di Gaza, mentre i combattenti di Hamas sparivano nei loro tunnel. Che la storia registri la verità: siamo stati sconfitti, completamente, dolorosamente e completamente.
E siamo noi, il popolo di Gaza, ad avere il diritto di dire se siamo stati sconfitti o meno, non coloro che se ne stanno comodamente seduti in Qatar o in Turchia. Siamo stati schiacciati, umiliati e distrutti dopo che la nostra città è stata distrutta, occupata e cancellata dall'esistenza. Siamo stati sfollati, spogliati di tutto ciò che avevamo costruito, abbandonati a vagare tra le rovine delle nostre vite. E da qualche parte in mezzo a tutto questo, ho capito qualcosa di semplice e terribile: le lacrime di mia madre sono più sacre della patria stessa, e la disperazione di mio padre conta per me più di qualsiasi bandiera. Perché che senso ha una patria quando divora chi ami, quando glorifica la morte ma dimentica i vivi? Non siamo stati «saldi». Siamo stati tenuti in ostaggio nella nostra stessa terra. Non potevamo andarcene. Non potevamo cambiare coloro che pretendevano di governarci. Siamo stati intrappolati tra un occupante spietato e governanti che si nutrono della nostra sofferenza. E se c'è un momento nella mia vita in cui devo dire la verità, senza paura, senza esitazione, allora è proprio questo. Sia scritto chiaramente: non siamo stati soldati in guerra. Siamo i corpi sepolti sotto di essa.
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