Foreste, fonti fossili, adattamento: le conclusioni della Cop30

di Lucia Capuzzi, inviata a Belém
Doveva essere la conferenza climatica della verità e lo è stata. Perché ha rilanciato la diplomazia multilaterale, con il Brasile al centro della scena. E nonostante l'ennesimo rinvio su petrolio, gas e carbone, sono arrivati segnali sui contributi ai Paesi più poveri e (in parte) sul riscaldamento globale
November 23, 2025
Foreste, fonti fossili, adattamento: le conclusioni della Cop30
Il presidente della Cop30, Andre Correa do Lago, al centro dell'ultimo negoziato a Belém / Reuters
Doveva essere la “Cop della verità”. Lo aveva detto il presidente Luiz Inácio Lula da Silva alla vigilia della Conferenza Onu sul clima (Cop30) di Belém. E lo è stata. Il vertice amazzonico ha rivelato, in modo inequivocabile, la drammaticità dello scenario planetario attuale. E un simile “svelamento” non poteva che avvenire in Amazzonia, dove la fame globale di risorse mostra il suo volto più vorace. Ma anche dove la forza vitale di esseri umani e ecosistemi si fa – per necessità – più intensa. “Luogo teologico”, l’aveva definita, con profezia, papa Francesco il quale aveva convocato un Sinodo sulla regione nel 2019.
Cartina di tornasole dell’attualità, si potrebbe dire con un linguaggio laico. L’analista climatico Ed King ha ringraziato, con una punta di ironia, Lula per avere “regalato” ai 57 partecipanti un’immersione nel presente in cui vive buona parte del mondo: temperature intorno ai 30 gradi, 80 per cento di umidità, piogge torrenziali che distruggono i mezzi di sussistenza e scarse risorse per difendersi. Quella realtà che una manciata di Grandi rifiuta di vedere. Perché va contro i suoi interessi, i quali non coincidono con il resto del globo. Non è una novità. Mai prima d’ora, però – almeno dalla Seconda guerra mondiale –, il tornaconto di pochi è diventato tanto incompatibile con l’interesse generale. Da un momento all’altro, la fragile architettura istituzionale globale costruita in settant’anni rischia di crollare, pezzo dopo pezzo.
Anche questo ha mostrato, plasticamente, la Cop30. Il summit, però, ha rifiutato di infliggere un ulteriore, forse decisivo, colpo al sistema: la diplomazia climatica è uno dei pochi spazi multilaterali rimasti. A dispetto di Donald Trump. Non è detto che il Brasile – Paese emergente con velleità di portavoce del Sud del mondo – volesse davvero far emergere così tanta verità da questa Cop. Più probabilmente i tre strateghi del vertice – Lula, la ministra dell’Ambiente e ecologista, Marina Silva, il presidente André Corrêa do Lago – avevano riposto troppa fiducia nei soci dei Brics. In particolare nella Cina che – nei piani brasiliani – avrebbe dovuto convincere Russia, India e, soprattutto, Arabia Saudita, capofila dell’opposizione all’uscita dai fossili. Così non hanno concentrato il negoziato sulla questione prevista: l’adattamento e i contributi ai Paesi poveri più colpiti dalla crisi.
Dossier su cui, per altro, il summit ha raggiunto l’obiettivo: triplicare i contributi entro il 2035, portandoli di fatto a 120 miliardi l’anno. Il risultato, però, è passato in secondo piano perché il Brasile ha lanciato l’idea di una roadmap per la transizione da petrolio, gas e carbone. La proposta, contenuta in un’apposita decisione politica forte – il cosiddetto “pacchetto mutirão” – si è trasformata nel cuore del summit. Per un momento, all’inizio della settimana, la mossa sembrava riuscita. Tanto che Corrêa parlava di chiudere in anticipo, dopo 22 anni di Cop ai supplementari. «Ma la Cina ha deciso di non giocare di sponda con il Brasile ma di portare avanti la propria partita», come sottolinea Jacopo Bencini, presidente di Italian climate network. Nelle successive 72 ore, dunque, tutto è sfumato. L’intero peso della Cop a trazione Brics, s’è scaricato sul Brasile.
Le 24 ore tra venerdì e sabato, dunque, si sono trasformate in una corsa a ostacoli tra due rischi opposti. Un finale senza accordo, per la gioia della Casa Bianca e dei detrattori del multilateralismo. O un’intesa tanto al ribasso da rappresentare più una sconfessione che una conferma della tenuta degli Accordi di Parigi dieci anni dopo. La soluzione trovata è quella che Luca Bergamaschi, fondatore del think tank Ecco, ha chiamato “multilateralismo a velocità multiple”. Per trovare un consenso globale, sul tema più spinoso – i combustibili fossili -, la dichiarazione conclusiva ribadisce quanto già deciso a Dubai con la sola aggiunta di luoghi di dialogo – il Global implementation accelerator e la Belém mission to 1,5 – per decidere come farlo. Il passaggio è volutamente soft: si limita a citare al punto 15-f il “consensus” raggiunto negli Emirati Arabi due anni fa, ovvero l’avvio della transizione entro l’attuale decennio critico.
Al contempo, però, la Cop diventa catalizzatore di nuove alleanze geopolitiche, come quella di novanta Paesi – in gran parte di America Latina, Europa e Stati insulari – decisi ad accelerare la fine dell’era fossile. L’avanguardia, rappresentata da Colombia e Olanda, ha annunciato ad aprile a Santa Marta una Conferenza ad hoc sull’addio ai fossili. Alla fine della plenaria, «determinato a non deludere quanti – soprattutto giovani, scienziati e società civile – si attendono di più nella lotta al riscaldamento globale», Corrêa do Lago, tra gli applausi, l’ha assunta come iniziativa della presidenza e ha annunciato dialoghi di alto livello aperti in vista dell’appuntamento. Dopo il fondo di investimento, inoltre, il Brasile ha lanciato una roadmap per la difesa delle foreste sostenuta sempre da 90 Paesi. Nell’impossibilità di sfondare il “muro” dei petro-Stati non resta che aggirarlo percorrendo varie strade. Solo Washington – come si è visto a Dubai – poteva convincere Riad a una qualche forma di impegno. Ma gli Usa di Trump, ora, spingono in direzione opposta. Anche il tempo dei sentieri che si biforcano – per citare Borges -, però, fortunatamente, scorre.

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