A Rio la caccia ai boss fa 130 morti nelle favelas
di Giuseppe Baselice, Rio de Janeiro
Raddoppiato il numero delle vittime dopo dodici ore di sparatorie nei complessi di Penha e do Alemao tra le bande di narcos del Comando Vermelho e la polizia

A Rio de Janeiro non si parla d’altro: c’è chi sposa la tesi del presidente Lula, e cioè che il crimine sia alimentato – nel caso del traffico di droga - dagli esigenti clienti dei quartieri ricchi; chi invece per estirpare il male vorrebbe che venissero rase al suolo le favelas, «come ha fatto Israele nella Striscia di Gaza», si sente dire negli ascensori o al bar. Qui però a differenza che a Gaza i giornalisti possono entrare e le spaventose immagini del blitz della polizia nei complessi di Penha e do Alemao, iniziato all’alba di martedì e finito oltre 12 ore dopo, sono passate in diretta tv. La rete Globo, il canale più visto del Paese, ha persino interrotto la telecronaca di una partita di calcio: un fatto quasi inedito, sebbene fosse la non imperdibile amichevole femminile tra Brasile e Italia.
Nelle due favelas della zona Nord, tra le più pericolose di Rio, le forze dell’ordine sono andate a caccia dei boss del Comando Vermelho, una delle fazioni che controlla mezzo Brasile, finendo però per scatenare una guerriglia urbana che in questa città, che nonostante tutto è stata in grado di ospitare in tempi recenti Olimpiadi e Mondiali di calcio, non si vedeva da anni. I numeri: 2.500 agenti mobilitati, 200 colpi al minuto sparati nell’arco di una intera giornata, 81 arresti, 72 fucili sequestrati e soprattutto oltre 130 morti (ma il bilancio è destinato ad aumentare), di cui 4 tra le forze dell’ordine e diversi feriti tra i passanti. L’operazione, voluta dal governatore dello Stato di Rio de Janeiro Claudio Castro (con un passato in carcere per corruzione e peculato), è stata la più sanguinosa della storia della città carioca: il precedente “record” apparteneva all’irruzione, datata 2021, nella favela del Jacarezinho, quando morirono 28 persone.

Per trovare un altro episodio di queste dimensioni bisogna invece risalire al 2 ottobre del 1992, quando nel carcere di Carandiru, questa volta a San Paolo, persero la vita 111 detenuti in seguito ad una rivolta soffocata per così dire sommariamente dalla polizia. Oggi il caso Penha-Alemao sta diventando politico: il governatore Castro ha scaricato la responsabilità sul governo Lula, per aver negato più volte l’invio di rinforzi. Ma da Brasilia respingono le accuse e nel mirino di stampa e opinione pubblica c’è infatti solo Castro, incolpato di una carneficina evitabile e che avrà strascichi giudiziari: sui corpi di molte vittime sono stati trovati segni di colpi di pistola alla nuca, a segnalare possibili esecuzioni. Un dettaglio che se sarà confermato non farà altro che alimentare la rabbia e la sete di vendetta delle periferie.
La città intanto si è risvegliata sotto choc e con le attività commerciali a mezzo servizio, come a far presente che molta manodopera arriva proprio da quelle comunità tenute ai margini, dove dilaga il crimine ma dove vive pur sempre un carioca su quattro. «La metropoli-ostaggio», titola il quotidiano Globo all’indomani del massacro, ricordando che le vittime della polizia sono per oltre il 90% neri. Nella scuola di samba Imperatriz Leopoldinense, avamposto culturale alle porte del complesso do Alemao, una trentina di ore prima dell’inferno era stata incoronata regina del Carnevale la popstar Iza, nata e cresciuta nei quartieri del blitz. Un momento di festa e di orgoglio per il popolo delle favelas, durato però poco.
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