mercoledì 16 marzo 2022
Il 15 marzo 2011 iniziavano le violenze. Il nunzio apostolico: «È la più grave catastrofe umanitaria dopo la fine della Guerra mondiale». Nel Paese scarseggiano il pane e farina. La Chiesa in campo
Manifestazioni contro il regime a Idlib

Manifestazioni contro il regime a Idlib - Reuters

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Sono passati 11 anni da quando, il 15 marzo 2011, una dozzina o poco più di adolescenti scrisse su un muro di Daraa, città fortezza nel Sud della Siria a pochi chilometri dal confine con la Giordania, «Dottore, il prossimo sei tu».
Il vento delle primavere arabe sembrava dover far cadere, uno dopo l’altro, tutti i regimi del Medio Oriente. L’arresto e le torture dei giovani studenti innescarono, nel giro di pochi giorni, la protesta che sarebbe diventata la rivoluzione siriana. Primo atto di una guerra civile non ancora conclusa anche se – ripreso nell’ottobre del 2017 da parte delle Forze democratiche siriane il controllo di Raqqa, capitale del Daesh – è poi finita fuori dal raggio di luce dei riflettori. Una guerra dimentica, ma che ogni anno aggiorna il suo tragico bilancio: sono infatti mezzo milione le persone uccise e identificate in 11 anni di violenze armate in Siria. Di questi più di 160mila sono civili, più di 25mila bambini e adolescenti. Lo riferisce l’Osservatorio nazionale per i diritti umani che, già da prima dello scoppio della guerra si serve di una fitta rete di fonti locali per monitorare le violazioni umanitarie in Siria. Secondo l’Osservatorio, dei 160.681 civili uccisi in 11 anni, 49.359 sono morti sotto tortura nelle carceri del governo siriano, altre 52.508 persone sono morte sotto i bombardamenti di artiglieria governativi contro zone controllate da gruppi armati anti-regime.
«È un triste anniversario, anzitutto perché la guerra non è ancora terminata e inoltre perché da un paio di anni a questa parte la Siria sembra essere sparita dai radar dei media. Ne hanno preso il posto, prima la crisi libanese, poi il covid-19, ed ora la guerra in Ucraina» ha dichiarato a "Vatican News" il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico a Damasco. «La speranza – ha aggiunto il cardinale Zenari – se ne è andata dal cuore di tanta gente e in particolare dal cuore dei giovani, che non vedono futuro nel loro Paese e cercano di emigrare». Secondo il diplomatico vaticano «quella siriana rimane tuttora la più grave catastrofe umanitaria provocata dall’uomo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non si vedono ancora segni di ricostruzione e di avvio economico. Per di più, le sanzioni pesano su tutto questo. Il processo di pace, secondo quanto prevedeva la Risoluzione 2254 dell’Onu, è bloccato. Solo la povertà avanza a grandi passi. La gente parla ora di guerra economica». In Siria scarseggia il pane e «ora, con la guerra in Ucraina, anche la farina, oltre ad altri beni di prima necessità», conclude Zenari secondo cui in questi anni «forse i due terzi dei cristiani hanno lasciato la Siria».
Ieri a Damasco si è aperta la conferenza promossa dall’Assemblea della gerarchia cattolica, dalla Congregazione per le Chiese orientali e dalla nunziatura apostolica per favorire il coordinamento dell’attività caritativa della Chiesa a servizio delle numerose vittime del conflitto civile. Alla conferenza sono presenti, oltre ai vescovi locali e al cardinale Zenari, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, l’arcivescovo Giampietro Dal Toso, segretario aggiunto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e alcuni rappresentanti di Caritas Internationalis, Jesuit Refugee Service e Avsi che negli ultimi anni ha promosso il progetto “Ospedali aperti” per aiutare a mantenere in attività i tre ospedali cattolici del Paese.

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