sabato 14 marzo 2020
Caritas Italiana, alla vigilia dell’anniversario, analizza la figura femminile: sono due volte vittime, subendo spesso discriminazioni e violenze di genere, fino allo stupro utilizzato come arma
Una donna siriana con la figlia tra il fango del campo profughi di Moria sull’isola greca di Moria

Una donna siriana con la figlia tra il fango del campo profughi di Moria sull’isola greca di Moria - Reuters

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E' come «calce viva sulla pelle delle donne» questa guerra in Siria. Barili bomba, raid dal cielo di jet militari, attacchi di eserciti e rappresaglie di milizie, città rase al suolo come Idlib in questi ultimi mesi – Aleppo Est, Homs, Hama, Damasco e la Goutha, negli anni passati – e soprattutto una vita senza più una dimora: calce viva, appunto, che scava piaghe sanguinanti nella carne e “buchi neri” nell’anima. Eppure sono «donne che resistono »; questo il titolo del rapporto di Caritas Italiana presentato oggi per rompere il silenzio sulla sofferenza, ma anche sulla resilienza al femminile. «Non solo vittime della guerra, ma parti attive del Paese che verrà», afferma Caritas che – dopo aver inquadrato il conflitto siriano giunto ormai a una magnitudine da guerra mondiale, tratteggia il volto femminile di queste vittime: 28.076 le donne morte dal marzo 2011 al novembre 2019 secondo il Syrian network for human right, 10.363 le donne detenute e di cui – sempre dal 2011 – non si è saputo più nulla. Cifre da considerare evidentemente per difetto, se stime concordi di vari istituti scientifici, attestano ad oltre 570mila le vittime in questi nove anni di guerra.

E ora tra i 960mila profughi di Idlib – la peggiore catastrofe umanitaria in corso della Terra, confrontabile solo con lo Yemen – l’81% sono donne. Tutte «vittime violentate da una guerra che non hanno scel-È to, perché sono gli uomini a pianificare la guerra»; e anche, come le donne curde del Ypg, nel Rojava, «combattenti con il kalashnikov in spalla»; e anche, «attiviste armate di parole» e che in un contesto maschilista e clanico, pagano la loro emancipazione fino alla morte come la curda Hevrin Khalaf, ex leader politica del Future Syrian Party. Ma soprattutto, lontane da qualsiasi ribalta mediatica, queste donne che ora fuggono da Idlib e provincia e si ammassano verso il confine siriano, sono quasi sempre “mater familias”, perché i mariti e i padri sono scomparsi o impegnati al fronte. E così queste donne, percepite nell’immaginario dell’Occidente come le «eternamente succubi», ora si trovano a dover garantire una ciotola di riso, una tenda e se mai fosse possibile un quaderno, una penna e un libro di testo ai loro figli. Queste “mater familias” devono sopportare sulla loro pelle tutto questo: l’essere vedove o donne sole le rende, in un contesto che si può definire di guerriglia urbana diffusa, ancora più vulnerabili: di fatto sono in aumento quelle che gli psicologi chiamano le «negative coping strategies», vale a dire l’abbandono scolastico, il subire molestie per avere l’accesso agli aiuti. In aumento, sempre in questo contesto, pure le spose bambine come il «nikak al-mutah» – i matrimoni temporanei delle ragazze – per garantirsi, anche solo per poco, vitto e alloggio. Nel Rojava, affermano gli analisti di Caritas Italiana, le recenti vicende belliche hanno aumentato gli stupri di guerra, spesso intesi come forme di ritorsione verso esperimenti sociali di emancipazione e governo al femmini-le, di cui il villaggio di Jinwar – «luogo delle donne» – è un modello da combattere. Così, afferma il rapporto Caritas, in tutta la Siria «le donne continuano a essere le vittime della violenza dei vari attori in campo – dal regime di Damasco, alle Syrian Democratic Forces, alla composita galassia jihadista, fino alle forze americane e sovietiche presenti sul territorio che impiegano l’uso di stupri, violenze, uccisioni come strumento funzionale alla causa delle rispettive propagande».

Un paragrafo del dossier Caritas è dedicato pure alle donne del jihad, in gran parte “foreign fighter” reduci da Raqqa, ora detenute nel campo di al-Hol, nel Rojava, che in un contesto di “radicalizzazione in cattività”, ora crescono i loro figli come «bombe a orologeria». Entrando domani nel decimo anno di guerra in Siria, il dossier afferma che dalle ferite di queste donne può nascere una capacità di riscatto e di riconciliazione da intendersi non come semplice assenza di conflitti. Per questo Caritas, rifacendosi alla risoluzione 1.325 dell’Onu, auspica che le donne siriane siano effettivamente coinvolte nei negoziati, come pure nelle forme di intervento umanitario sul campo «assicurando la loro effettiva partecipazione ai processi di ricostruzione ». Gli aiuti umanitari devono essere organizzati privilegiando le categorie più vulnerabili e la distribuzione sia organizzata in modo da ridurre il rischio delle donne di subire violenza. Nel post conflitto – la cosiddetta “guerra dopo la guerra” – va garantita l’educazione sia in condizioni di emergenza sia in condizioni ordinarie. Infine, fra i crimini di guerra che andranno perseguiti non appena possibile, lo stupro e altre forme di violenza e discriminazione femminile. Donne che resistono, per generare la nuova Siria.

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