giovedì 11 agosto 2022
In superficie, Kabul non è cambiata dall'agosto 2021. Ma la repressione è strisciante. E la povertà dilaga
Forze taleban presidiano le strade di Kabul

Forze taleban presidiano le strade di Kabul - Ansa

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Impossibile dimenticarla. L’immagine ha marchiato in modo indelebile la missione occidentale in Afghanistan. Il 16 agosto 2021, all’indomani dell’irruzione dei taleban nella capitale, un C-17 stracolmo di profughi si stacca da terra, lasciando dietro di sé una scia di puntini neri. Sono uomini e donne che, presi dal terrore e dalla disperazione, si sono aggrappati alla base della fusoliera. Si credono in salvo come chi, nel fuggi fuggi generale, è riuscito a salire a bordo. La forza dell’aria durante il decollo, invece, li scaglia a terra. Nessuno saprà mai il numero esatto delle vittime. Insieme ai loro corpi, sulla pista dell’aeroporto di Kabul, si è frantumato il miraggio di aver esportato la democrazia nel Paese asiatico.

«Uno dei “puntini” era mio fratello Zaki. Aveva 19 anni e voleva solo giocare a pallone. In un anno ho perso lui, la casa, il lavoro». Zakir Anwari si presenta all’appuntamento in un bar “sicuro” nel centro della capitale in compagnia di un amico. Ha paura di uscire da solo. A differenza di altri puntini anonimi, Zaki era un personaggio noto: star della nazionale di calcio under 18, aveva di fronte a sé un futuro sportivo brillante. «Temeva di non potere più scendere in campo. Per questo l’ha fatto. Me l’ha detto lui stesso quando mi ha chiamato, 73 minuti prima di compiere quel gesto folle. Ho cercato di distoglierlo ma non ci sono riuscito. Non voleva vivere nella paura. Ora lo capisco», racconta Zakir, finito nel mirino degli studenti coranici a causa di alcune interviste a media nazionali e internazionali. «Ho solo detto la verità: Zaki non voleva rimanere nell’Afghanistan dei taleban». Questi ultimi non hanno gradito e sono cominciate le minacce. «Prima abbiamo cambiato casa. In seguito, ho chiuso il negozio di telefonia che avevo nel mercato di Lazy Mariam. Ormai aspetto solo che si scordino di me. Anche io vorrei dimenticare quel giorno, ma non posso». Del caos feroce di allora, un anno dopo, nello scalo ancora intitolato a Hamid Karzai, non c’è traccia.
L’esiguo gruppo in arrivo si lascia misurare la temperatura prima di prendere le valigie. Gli addetti ai carrelli si contendono i pochi passeggeri nella speranza di una mancia. Il controllo dei passaporti è veloce. C’è perfino una donna in servizio. Appena fuori, il cartello “I love Afghanistan” dà l’impressione di trovarsi in una nazione qualunque. Ma non lo è. Kabul ora è la capitale dell’Emirato islamico, come sottolineano le onnipresenti bandiere bianche, con scritto «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta».

La pace asfissiante dei taleban ha sostituito oltre quattro decenni di conflitto ininterrotto: prima contro i russi, poi fra i signori della guerra, quindi contro gli americani e i loro alleati. È finalmente possibile percorrere in auto Airport road senza timore di saltare in aria su un ordigno. O oltrepassare l’enorme scanner di Zambaq Way e accedere alla zona dei palazzi governativi. Ma è vietato ascoltare musica, tagliarsi la barba – per gli uomini – e mostrare il volto, per le donne. Queste ultime non possono nemmeno continuare gli studi dopo le elementari, viaggiare da sole per più di 75 chilometri, prendere la patente, sedere al fianco di un automobilista maschio, entrare in un parco in uno dei giorni non espressamente riservato. La separazione tra i generi, ossessione del movimento fin dalla nascita negli anni Novanta, è legge.

Eppure, almeno nella capitale, molte ragazze passano davanti ai costanti check-in taleban senza la mascherina d’ordinanza o il velo sulla bocca. Mentre, nell’abitacolo delle proprie vetture, i giovani accendono la radio. I barbuti in tunica e turbante, con il Kalashnikov sempre in mano, lasciano correre. Almeno in apparenza. «Forse gli studenti coranici, nel profondo, non sono cambiati. Ma l’Afghanistan sì. E molto», afferma Scott Smith, capo del servizio Affari politici della missione Onu nel Paese (Unama). Per sopravvivere, dunque, i taleban sono sufficientemente pragmatici da accettare di fare i conti, in qualche modo, con il nuovo scenario. Per questo, la Kabul del secondo Emirato somiglia più alla capitale della defunta Repubblica che a quella del regno del mullah Omar tra il 1996-2001. «Ora il clima è differente. Sono stato qui nel 1997 e la cappa di terrore era opprimente. Le persone venivano picchiate fuori dalle moschee, le tv distrutte in pubblico, le donne rinchiuse in casa – sottolinea Smith –. Questo non vuol dire che non ci sia repressione». Un recente rapporto dell’Unama ha documentato almeno 160 esecuzioni extragiudiziali, 178 arresti arbitrari, 26 scomparse e 56 casi di tortura nei primi dieci mesi del regime fondamentalista. Per scoprire la violenza, però, è necessario inabissarsi nel “Paese clandestino” che scorre sotto la pelle “dell’Emirato anno uno”. La nazione di quanti – e non sono pochi – non hanno più un posto nel mondo “per soli uomini pashtun fanatici” degli attuali padroni. Esponenti delle minoranze, Hazara in primis. Attivisti impegnati per promuovere la trasformazione sociale; militari e civili legati all’amministrazione precedente; reporter colpevoli di aver denunciato i crimini jihadisti.

«Domani venderò la telecamera. Sono dodici mesi che non lavoro come filmaker. Almeno la mia famiglia potrà tirare avanti qualche settimana», racconta Zin. E, ancora, intellettuali non allineati, artisti, omosessuali, tossicodipendenti. In bilico tra i due Afghanistan, senza patria nel Paese superficiale come in quello sotterraneo, si colloca lo stuolo dei poveri e poverissimi. Con l’interruzione dei finanziamenti del mondo e il congelamento dei fondi all’estero seguiti al ritorno dei taleban, l’economia nazionale si è contratta di colpo di oltre un terzo, 700mila impieghi sono stati spazzati via e il 59 per cento della popolazione non ce la fa a sopravvivere. Una crisi umanitaria che minaccia il potere degli studenti coranici più degli attacchi dei rivali jihadisti del Daesh. Il governo di fatto lo sa. Per questo, il mural sul ministero degli Esteri ripete: «L’Emirato vuole rapporti pacifici con il mondo». Eppure, mese dopo mese, i taleban sembrano essere sempre meno disposti a compromessi per rompere l’isolamento internazionale. Anzi, da gennaio, le maglie del sistema si sono strette ulteriormente, in concomitanza – sostengono fonti ben informate – con il consolidamento al comando del dogmatico emiro Hibatullah Akhundzada, leader formale eppure a lungo tenuto in ombra dall’ingombrante ministro dell’Interno, Sirajuddin Haqqani. In questo aggiustamento degli equilibri interni potrebbe rientrare l’uccisione da parte di un kamikaze a Kabul, ieri, di Sheikh Rahimullah Haqqani, altro importante esponente del clan, che si era pronunciato a favore dell’istruzione delle ragazze. Nonché l’eliminazione, sempre nella capitale, il 31 luglio, di Ayman al-Zawahiri. La stretta del 2022 su istruzione, abbigliamento e spostamenti femminili ha chiuso le possibilità di un riconoscimento a breve.
Quanto ancora i taleban potranno andare avanti contando solo su Pakistan e Qatar e sugli investimenti della Cina, interessata ad accaparrarsi le risorse del sottosuolo? Come i fatti di un anno fa hanno dimostrato, è rischioso fare previsioni sull’Afghanistan. Il dato sorprendente è che finora gli studenti coranici siano riusciti a evitare il collasso. Merito della capacità di tenere sotto traccia le lotte intestine, di far leva sul conservatorismo delle remote regioni rurali, di sfruttare gli enormi errori della democrazia “made in Usa”, con la sua corruzione dilagante e gli incalcolabili “danni collaterali”. Ma è soprattutto l’aver spezzato l’interminabile bellica a far accettare agli afghani l’anacronismo del sistema presente. Almeno per il momento. Come recita un tradizionale detto pashtun: «Non si può impedire agli uccelli di cantare».

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