Vantaggio o svilimento? Quel che c'è da sapere sui patti prematrimoniali
di Luciano Moia
Due sentenze hanno riaperto il dibattito sulla possibilità per i futuri coniugi di stabilire i termini di un’eventuale separazione. Tra tutele materiali e forti riserve etiche

Della possibilità di sottoscrivere un accordo prima del “sì” si parla da decenni, sulla falsariga di quanto avviene in altri Paesi occidentali, ma per la giurisprudenza italiana l’argomento è sempre stato tabù. Nei mesi scorsi però due sentenze, una del Tribunale di Catanzaro, l’altra, decisamente più pesante, della Cassazione, intervenuta dopo le sentenze dei Tribunali di Brescia e di Mantova, hanno riaperto il dibattito sui patti prematrimoniali. Vediamo cosa è emerso.
In alcune condizioni, gli accordi intercorsi tra marito e moglie prima del matrimonio, vanno considerati validi e servono ad azzerare il possibile contezioso al momento della separazione. Il 21 luglio scorso, la Corte di Cassazione – ordinanza 20415 – ha infatti ritenuto valida una scrittura privata sottoscritta da due coniugi mantovani secondo cui il marito si impegnava a restituire alla moglie il denaro speso da lei per pagare le spese di ristrutturazione della casa di proprietà del marito nel caso in cui il matrimonio fosse andato male. E così è stato. Nel documento approvato e firmato dai due ex coniugi prima del “sì” era specificato che lui si sarebbe impegnato a restituire alla moglie 146mila euro, comprensivi del mutuo e delle spese per gli arredi ai quali lei aveva contribuito nonostante la casa fosse intestata solo al marito. Lei dal canto suo rinunciava ad alcuni beni: gli arredi della casa ed una imbarcazione. Tutto chiaro e definito? Niente affatto. Quando, la relazione tra i due è naufragata e la donna ha chiesto l’attuazione dell’accordo, lui ha detto no. Non solo, si è rivolto ai giudici chiedendo di dichiarare nullo quell’atto privato “per contrarietà all’ordine pubblico e a norme imperative di legge”, quali gli articoli 143 e 160 del codice civile, relativi ai diritti e ai doveri dei coniugi. Ma prima il Tribunale di Mantova, poi la Corte d’appello di Brescia, a sorpresa, hanno dato ragione alla signora, nonostante non esista una legge in Italia che regoli questa materia. Infine si è arrivati in Cassazione dove le due precedenti sentenze sono state confermate.
Secondo la Cassazione, la scrittura privata in questione «risulta perfettamente lecita, perché prevede un riconoscimento di debito in favore della moglie, a fronte dell’apporto finanziario della stessa per il restauro dell’immobile di proprietà del marito e per l’acquisto del mobilio e di beni mobili registrati, ma riconosce anche al marito un’imbarcazione, un motociclo, l’arredamento della casa familiare, nonché una somma di denaro, regolamentando in modo libero, ragionato ed equilibrato, l’assetto patrimoniale dei coniugi in caso di scioglimento della comunione legale». Secondo l’avvocato Erik Stefano Carlo Bodda, autore di uno studio sul tema uscito nella newsletter dello Studio Cataldi, «la giurisprudenza ha finalmente riconosciuto che l’autonomia privata può operare anche nell’ambito dei rapporti familiari, purché nel rispetto dei principi inderogabili dell’ordinamento. Questo rappresenta un allineamento con i sistemi giuridici più evoluti, che da tempo riconoscono la validità dei patti prematrimoniali». Accanto ad aspetti positivi – flessibilità delle norme contrattuali, tutela del coniuge economicamente più debole, prevenzione del contenzioso – esistono zone d’ombra che riguardano l’incertezza normativa. Come uscirme? Con una disciplina organica, cioè una nuova legge che abbia «requisiti formali chiari per garantire la consapevolezza delle parti; controlli di equità sostanziale per tutelare il coniuge economicamente debole; meccanismi di revisione per adattare gli accordi al mutare delle circostanze; limiti contenutistici per preservare i diritti fondamentali della persona».
Totalmente discorde il parere di Vincenzo Bassi, anche lui avvocato, vicepresidente dell’Unione dei Giuristi cattolici italiani (Ugci) nonché presidente della Federazione delle associazioni familiari cattoliche europee (Fafce), secondo cui l’idea dei patti prematrimoniali è intrinsecamente dissonante rispetto alla natura del vincolo coniugale. E non solo per ragioni spirituali e teologiche ma anche giuridiche. «Il matrimonio – spiega – anche per il diritto civile (e non solo canonico) è un negozio giuridico sui generis, distinto dai contratti in senso proprio. Non realizza un equilibrio sinallagmatico di prestazioni e controprestazioni, né si fonda su una logica mutualistica o assicurativa. Consiste, piuttosto, nell’impegno personale e totale dei coniugi, i quali si donano reciprocamente in vista di una comunione di vita. È, forse, l’unico negozio giuridico in cui la volontà si orienta non a un vantaggio individuale, ma al servizio gratuito dell’altro e alla costruzione della famiglia come comunità sociale primaria. Questa peculiarità rende impossibile circoscrivere in anticipo le dinamiche della vita coniugale. La famiglia – argomenta ancora il presidente della Fafce – è aperta e imprevedibile: non si possono programmare nascite, malattie, sacrifici, né stabilire ex ante criteri di ripartizione patrimoniale. Mentre i contratti consentono clausole, limiti e condizioni per disciplinare rapporti economici futuri, il matrimonio implica un investimento di risorse — affettive ed economiche — che non è liquidabile con la semplice logica contabile propria delle società o dei rapporti obbligatori. In questo quadro, il patto prematrimoniale appare intrinsecamente dissonante rispetto alla natura “donativa” del vincolo coniugale. Esso introduce una riserva mentale nel dono di sé, subordinandolo a parametri patrimoniali prestabiliti. Ne consegue una riduzione del matrimonio a un rapporto contrattuale condizionato, destinato a durare “finché conviene”. Ma il matrimonio, per la sua essenza, non tollera limitazioni preventive: è un dono incondizionato e irrevocabile, aperto alla generatività e alla cura reciproca, e per questo – osserva ancora Bassi – non può essere racchiuso in schemi contrattuali di anticipazione patrimoniale, perché in caso contrario rischiamo di banalizzare il senso del matrimonio».
Che alternative immaginare allora? Senza arrivare a una legge che avrebbe controindicazioni pesanti e aprirebbe ad esiti non prevedibili, «sarebbe opportuno che i coniugi riflettessero con più attenzione sui regimi patrimoniali oggi in vigore (comunione o separazione), o ragionassero, da subito, sull’opportunità di strumenti giuridici già esistenti come il fondo patrimoniale o altri istituti fiduciari in favore dei figli o del coniuge economicamente più debole. In ogni caso, qualsiasi decisione deve essere assunta nel rispetto dell’effettiva parità tra i coniugi e, al tempo stesso, non può compromettere l’elemento essenziale di ogni famiglia fondata sul matrimonio: la condivisione, tanto materiale quanto spirituale». E infine, al di là degli aspetti etici, come immaginare una legge sui patti prematrimoniali riguardanti aspetti patrimoniali, quando esistono progetti di riforma del diritto di famiglia che vanno ad incidere su altri momenti del contenzioso coniugale, come l’affido condiviso? Dovremmo pensare a un accordo preventivo anche per l’educazione e la cura dei figli, nel caso in cui i due genitori dovessero decidere di separarsi? E infine la questione decisiva: la pretesa di regolare in punta di diritto tutti gli ambiti della vita matrimoniale e familiare non rischia di snaturare completamente un progetto di vita che dovrebbe essere fondato su “valori” e “leggi” molto più vincolanti di quelle economiche e giuridiche? Domande aperte, in attesa di riprendere e approfondire un dibattito che non può finire qui.
«Ma la Chiesa non può accettare clausole per l'amore»
«Un’arma a doppio taglio». È la sintesi proposta da don Maurizio Chiodi, teologo morale, ordinario di bioetica al Pontificio Istituto teologico Giovanni Paolo II, a proposito della questione “patti prematrimoniali”. Quindi aspetti positivi e negativi insieme? Non proprio, in questo caso il “doppio taglio”, se non esclude ipotetici vantaggi per gli sposi – tutti però da definire – racchiude una serie di interrogativi così pesanti da indurre alla prudenza, se non al rifiuto per eccesso di elementi imponderabili. Dato per scontato – è la premessa del teologo – che oggi per la Chiesa, quando si parla di matrimonio, i problemi autentici sono altri (relativismo relazionale, formazione delle coscienze, egocentrismo, immaturità affettiva e tanto altro, come spesso abbiamo più volte scritto) non è sbagliato riflettere sulla questione sollecitata dai recenti interventi della magistratura.
Da dove nascono allora le perplessità a proposito degli accordi prematrimoniali? Tutto dipende dalla volontà degli sposi e dal testo della legge (che non esiste ancora), cioè dalla formula che i due futuri coniugi vanno a sottoscrivere. Detto in modo semplice: sarebbe inaccettabile nella prospettiva cristiana un testo che lasciasse intendere l’accettazione di un possibile fallimento? Dal punto di vista della Chiesa, il matrimonio è sacramento a tempo indeterminato, fondato su quattro colonne: indissolubilità, unità, fedeltà, apertura alla vita. Se due fidanzati arrivano all’altare già convinti che una di queste quattro colonne possa essere messa da parte o considerata valida, come si dice, «finché l’amore dura e poi ciascuno per la sua strada», il matrimonio è canonicamente nullo. Il Codice di diritto canonico (1101 – 1), lo dice con chiarezza: «Il consenso interno dell’animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel celebrare il matrimonio». E ancora: «Ma se una o entrambe le parti escludono con un positivo atto di volontà il matrimonio stesso, oppure un suo elemento essenziale o una sua proprietà essenziale, contraggono invalidamente» (1101-2). E un documento ufficiale, approvato e sottoscritto, sarebbe da intendere come «un positivo atto di volontà»? Vediamo di capire.
L’indissolubilità, allo stesso modo della fedeltà, dell’unità e dell’apertura alla vita, è un elemento essenziale. Non ci si può sposare in Cristo lasciando aperta la porta a un possibile fallimento. Ora, gli sposi cattolici non vivono su un altro pianeta. Sono consapevoli che il rischio di non farcela, pur con tutto l’impegno e la dedizione possibile, è sempre dietro l’angolo. E allora, accettare di sottoscrivere qualcosa capace di mettere al riparo il coniuge più debole, non sarebbe comunque gesto di prudenza e anche di amore? «Ma il problema – chiarisce don Chiodi - è quella volontà preventiva su un documento che mette in dubbio prima ancora del “sì” l’amore per sempre, o comunque lascia intendere che esiste già un’ipotesi diversa». E infatti il Codice di diritto canonico spiega: «Il matrimonio celebrato sotto condizione passata o presente è valido o no, a seconda che esista o no ciò su cui si fonda la condizione». Ora la firma di un accordo prematrimoniale in previsione di una eventuale separazione è certamente una “condizione presente”.
Ma se gli “accordi” fossero limitati a definire un futuro patrimoniale, senza intaccare esplicitamente il valore dell’indissolubilità, cioè una condizione per cui il matrimonio possa essere considerato “a tempo determinato”? «Tutto dipenderebbe dalla formulazione del testo. Si dovrebbe avere la massima cura nell’evidenziare la volontà positiva dei futuri sposi con un’adesione esplicita ai fondamenti del matrimonio cristiano. Ma forse non sarebbe ancora sufficiente e poi, nel momento in cui venisse approvata una legge, sarebbe possibile scegliere il testo e inserire specificazioni così particolari? Inoltre, spostandoci sul piano morale – aggiunge don Chiodi – occorre considerare anche le ricadute di una scelta simile nelle dinamiche familiari. Che influenza avrebbe nel rapporto di coppia la consapevolezza di aver già sottoscritto una possibile via d’uscita? Cosa può pensare un figlio sapendo che i genitori si sono già accordati in vista di un possibile divorzio, seppure ipotesi non auspicata da nessuno dei due?». Tanti interrogativi che, dal punto di vista canonico e morale, non possono avere al momento risposte certe e di fronte a cui anche le intenzioni più trasparenti rischiano di avere un esito non desiderato.
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