Tornare a parlare coi ragazzi? «Noi ci riusciamo col rap»
Lontani e spesso privi di argomenti comuni, genitori e figli sperimentano una solitudine che questi ultimi hanno imparato a “gridare” attraverso la musica. Viaggio a Novara e a Bologna, dove vengono ascoltati

Sono sempre più vasti i territori della vita quotidiana in cui il dialogo tra generazioni si è inceppato, come se la lingua si fosse improvvisamente fatta straniera. I genitori e più in generale gli adulti lo misurano costantemente con le tecnologie, nonostante vi siano immersi proprio come i ragazzi: non capiamo davvero (e di questo da loro veniamo spesso accusati) l’uso che ne fanno, che cosa significhi per loro. Lo stesso vale per la musica, nella forma del rap e del trap: così disturbante e volgare, per i grandi, così decisiva nel loro percorso identitario di crescita.
Il giovedì pomeriggio, dalle 16.30 alle 18.30, il professor Giuseppe Passalacqua incontra allo Spazio Nòva di Novara ragazzi e ragazze dagli 11 ai 30 anni per laboratori di scrittura con il rap, coadiuvato da animatori socioculturali, musicisti, pedagogisti ed educatori. «Dal 2020, da ottobre a giugno, ogni anno ne seguiamo una cinquantina: c’è chi ha problemi di dispersione scolastica o altre vulnerabilità, chi sta facendo un cammino di messa alla prova dopo aver compiuto reati, alcuni sono minori stranieri non accompagnati e richiedenti asilo, altri già rappano per professione. Anzitutto cominciamo a conoscerci per creare un gruppo non virtuale ma reale, con i corpi in carne e ossa la presenza fisica, uscendo da nicchie e camerette per incontrare gli altri nella vita concreta». Nei brani i ragazzi «scrivono di sé, di come vivono esperienze affettive, conflitti, emozioni represse; si fermano per pensare e trovare le parole di quello che non riescono a dire. Un itinerario formativo che serve come supporto alla loro crescita: il rap è uno strumento formidabile per la rilettura emotiva delle proprie storie. E spesso ansia, paure e angoscia si affievoliscono», racconta Passalacqua, di mattina docente di scienze umane e filosofia presso un liceo novarese, oltre che psicologo, psicoterapeuta e appassionato di rap.
In una ex caserma, che grazie a diverse associazioni è diventata polo di aggregazione giovanile e produzione culturale, il progetto che ha ideato e coordina si chiama “Rap up! Laboratori didattici sul rap”. «Avevo la necessità educativa, oltre che didattica, di trovare un linguaggio, un codice, per entrare in relazione con i ragazzi. E il rap costituisce uno strumento potentissimo per intercettare il loro immaginario, i desideri, l’orientamento nella vita», spiega il professore. Un percorso anche intergenerazionale che diventa ponte con le famiglie: «I genitori mi interpellano per cercare di capire i gusti musicali dei figli, che a volte li spaventano perché non li conoscono». Infatti, esplorando con attenzione il cuore dei testi, il rap affronta e soprattutto fa emergere tematiche complesse e dolorose, come le difficoltà in ambito relazionale: a volte i rapporti familiari risultano problematici e nelle barre composte dai ragazzi «la volatilità e assenza della figura paterna, così come la centralità del legame madre-figlio si ripetono con costanza sbalorditiva. Il ruolo della madre è fondamentale: figura dominante, protettiva o crudele, dolce o soffocante». D’altra parte «il rap e la trap fanno il loro mestiere di dividere. In passato Vasco Rossi e Fabrizio De André sono stati di rottura: la musica ha anche la funzione di inquietare».

Nelle rime del rap anche chi si percepisce emarginato o escluso in ambito sociale riesce a mettere in fila parole per raccontare la sua esperienza interiore. «In questa possibilità di verbalizzazione, di trasformazione del vissuto in narrazione condivisa, si può intravedere un valore quasi terapeutico del rap sia per chi lo crea, sia per chi lo ascolta», puntualizza Passalacqua. Non solo: «La scrittura del rap ha molte cose in comune con la poesia, come rime, metafore, allitterazioni, figure retoriche e allegoriche. Così passiamo da Carducci a Guè, da Pascoli a Rancore, da Čechov a Kid Yugi, da Dante a Tedua». Ma nel laboratorio, dopo i mesi di teoria e scrittura, si passa alla parte pratica: «Da febbraio ad aprile proviamo e registriamo i brani, con l’idea di costruire un album; finora ne sono usciti due, “Supernova” ed “Eccoci”. Poi ci prepariamo per il concerto finale di giugno, invitando un rapper famoso. Proviamo a spiegare che dietro la scena musicale c’è un mondo e tanto lavoro di vari professionisti e che per realizzare un prodotto di qualità ci vogliono tante competenze e capacità». E fra una lezione e l’altra, una registrazione e una prova, c’è sempre una pausa di una ventina di minuti in cortile per fare freestyle, l’arte di improvvisare rime e versi a tempo di musica (un beat) senza testi preparati, dimostrando abilità lirica e creatività sul momento: «I ragazzi battagliano con regole precise – evitando parolacce – per trovare le rime, magari insieme a quello antipatico, e alla fine si danno la mano».
La sfida? «Dopo la rottura, ricostruire il patto generazionale: possono farlo anche gli adulti», ma con un atteggiamento «di apprendimento reciproco», osserva il professore, perché «non si può insegnare se non si è segnati: il rap ci ha dato la possibilità di costruire relazioni e darci fiducia, ad ascoltarci», evidenzia. Lo ha sperimentato grazie a tanti adolescenti e giovani passati in questi anni nelle stanze del laboratorio. Come David, di origini tunisine: lottava con la balbuzie e a scuola veniva bullizzato; i genitori, «alle prese con problemi di lavoro e un fratello in carcere, non riuscivano a offrirgli stabilità. Il ragazzo si trova coinvolto in piccoli atti di vandalismo o di spaccio e sembra non avere alcun interesse per il futuro. Nei suoi testi inizia a parlare della sua vita, delle difficoltà familiari, della balbuzie che lo aveva emarginato. Il rap per lui non è più una forma di espressione, ma una vera e propria forma di rinascita. Durante un talent show a Nòva, David sale sul palco: quando inizia a rappare la sua voce diventa potente e sicura. Il rap gli ha restituito quella fiducia verso la parola che prima teneva trattenuta». Invece Ariel ha trovato le parole per raccontare la lotta con il linfoma e ora «vuole studiare musicoterapia, portare il rap nei reparti dove la speranza sembra scomparsa». Invece Roby, 17enne «con una disabilità cognitiva grave che lo fa sentire “fuori dal mondo”», ha incontrato Mary al laboratorio, cominciando a scrivere seguendo dei metodi non tradizionali. «I due iniziano con brevi rime, scambiandosi le sillabe come fossero percussioni. Lentamente qualcosa dentro Roby si sblocca e dopo mesi di lavoro scrive il suo primo testo. Davanti ai suoi genitori legge: “Io sono Rob, le mie parole hanno un suono, ogni lettera un passo, ogni rima un dono”».
Coi prof, a lezione di barre: quando il rap entra in classe
Studiare alcuni testi dei rapper per usarli in classe, durante le lezioni, «quando i brani sono funzionali nel percorso didattico». Lo fa da anni il professor Lorenzo Galliani, docente di religione in una scuola media a Bologna e in un’altra a Monte San Pietro. E insegna a farlo ad altri colleghi: ha appena concluso a Bologna un laboratorio per gli studenti in scienze religiose presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna: 12 incontri da 2 ore ciascuno su “Generi musicali e canzoni contemporanee nella didattica Irc”. «Abbiamo condiviso percorsi di insegnamento, citando ad esempio canzoni di Caparezza e Sfera Ebbasta per i loro contenuti che richiamano alcuni temi importanti, inseriti nel ciclo di lezioni che si possono preparare», spiega Galliani, che è anche giornalista e autore del volume “Canzoni in classe. Dal rap all’indie, alla ricerca di un senso”, uscito due anni fa per i tipi di Ancora.

«Abbiamo approfondito i testi di brani per cogliere domande di senso, riferimenti religiosi ed esistenziali presenti nella cultura giovanile, per poter valorizzare la musica come canale di dialogo educativo», aggiunge. E in diversi pezzi di rapper emergono argomenti come le relazioni affettive, la famiglia, il suicidio, il body shaming: in “Ci sarò” di Alfa, ad esempio, «un ragazzo vincendo l’imbarazzo pronuncia un “per sempre” che vale soprattutto nei momenti difficili. “Chi ci sarà assieme a te sotto la neve?/ Chi ci sarà quando le cose non van bene?/ Chi ci sarà che col dito ti toglierà una lacrima sul viso?/ Ci sarò, io sì, ci sarò”. Siamo così circondati dall’amore mordi e fuggi che un adolescente capace di guardare oltre l’istante è quasi commovente: fa pensare che in amore o ci si mette tutto di se stessi, o non vale la pena. Quando ci si rende conto che “i giorni passano/ ma tu non passi mai più”, non si può fare finta di niente».
Invece il rapper Ernia affronta in “Buonanotte” l’aborto vissuto da un padre, raccontando com’è cambiato il suo mondo, «la sofferenza e l’inquietudine vissuta da lui e dalla madre», rivolgendosi al figlio mai nato: «Perdonami davvero/ ma se abbiamo preso questa (scelta)/ è stato anche per non doverci ritrovare ostaggi della stessa». Il testo «è molto delicato, come il video, che vede per tutto il tempo due mani strette con sullo sfondo un’ecografia. Ogni parola è pesata, più recitata che rappata, con frasi commoventi ma che non puzzano per nulla di falsa retorica», commenta Galliani. Ancora, la canzone “Piccole cose” di J-Ax e Fedez ft. Alessandra Amoroso «è stata presentata come un inno alle piccole cose, spesso dimenticate eppure capaci di dare sapore alla vita. Nel video ci troviamo più volte davanti a una realtà ribaltata: J-Ax cammina sul soffitto, la Amoroso è su un terrazzo e alle sue spalle ci sono grattacieli a testa in giù. Al contrario – quindi alla rovescia – di quello che si potrebbe pensare, sono le piccole cose quelle più importanti della nostra vita e ognuno ci metta quello che vuole: il sorriso di un figlio, una serata con gli amici, un messaggio inaspettato».
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