Parlare di morte in famiglia si può (e si deve): vi spieghiamo come

Altro che Halloween, nell'ultima settimana di ottobre abbiamo l'occasione di confrontarci anche coi figli (e coi piccoli, fra i figli) sulla vita, la morte e molte altre questioni fondamentali. Facciamolo così
October 30, 2025
Una bambina al Cimitero Monumentale di Milano
Una bambina al Cimitero Monumentale di Milano

Ma Halloween può essere davvero l’occasione giusta per aiutare i bambini a riflettere su vita e morte?  

Può sembrare una domanda trabocchetto. Negli ultimi trent’anni sulla festa “dolcetti e scherzetti” si è detto di tutto. Chi ha qualche anno in più, ha probabilmente vissuto direttamente le diverse stagioni della critica cattolica a proposito di questa ricorrenza. Ci sono stati anni, per fortuna ormai lontani, in cui si sono scomodati perfino demonologhi ed esorcisti per spiegare la pericolosa contiguità di Halloween a riti satanici, sabba delle streghe ed altre cerimonie esoteriche capaci – si diceva - di sconvolgere la mente dei nostri figli ed attirarli verso la celebrazione di malefici e liturgie occulte. Poi, anno dopo anno, questo filone di pensiero catastrofista si è un po’ attenuato. Nessun intento negazionista, il male esiste, il satanismo esiste ed è una grave patologia dello spirito, ma non c’è davvero bisogno di Halloween per ricordarcelo. Il male non ha date e si tiene ben lontano dai riflettori di una ricorrenza ormai diventata un mix di folklore e proposte commerciali. D’accordo – hanno osservato alcuni antropologi di buon senso – nell’origine di Halloween c’è un po’ di tutto, dalla festa celtica di Samhain ad altre ritualità pagane, ma la tradizione cristiana, come suggerisce il nome stesso della festa, ha innestato in questo arcipelago di significati contraddittori anche richiami evidenti alla ricorrenza di Ognissanti e a quella dei defunti. I santi – potremmo dire - sono i nostri “spiriti buoni”, le anime che già godono della presenza di Dio e ci indicano la strada per la salvezza eterna. Perché quindi non cogliere questi aspetti della festa per avviare con i nostri figli una riflessione serena – sempre differenziando la profondità del discorso in base alle diverse età – su vita, santità e morte? Facile immaginare le risposte: ma non bastano a questo scopo la ricorrenza dei santi e quella dei defunti? Certamente sì, ma dietro queste due festività – dobbiamo riconoscerlo - non c’è l’onda mediatica di Halloween, non ci sono gli scaffali dei supermercati pieni di riferimenti alla circostanza, non c’è la forza della pubblicità, non c’è l’impatto quasi irresistibile delle mode d'oltreoceano. Scontato che l’attrattiva esercitata sia decisamente più intrigante e coinvolgente. Quindi perché non sfruttarla? Giusto arrendersi anche a questa colonizzazione culturale? No certamente, ma si tratta di una tendenza che si può incanalare in un bene possibile. L’estremismo, anche in questo caso, non paga. Sbagliato insomma adeguarsi senza riflettere e, all’opposto, schierarsi come gli ultimi samurai in una battaglia di retroguardia. L’alternativa? Prendiamo esempio da san Paolo che nella lettera ai Tessalonicesi scrive: «Esaminate tutto e trattenete ciò che è buono» (5, 21-23). Insomma, facciamo funzionare la preziosa virtù del discernimento. C’è qualcosa di buono in questa festa? C’è qualcosa da salvare? I tanti, scombinati e confusi riferimenti allo spirito dei defunti di cui è disseminata la narrazione di questa festa non possono diventare l’occasione per avviare un discorso serio con i nostri ragazzi? Sono argomenti scomodi, complessi e di cui non è mai facile parlare, ma proprio il contorno leggero che Halloween regala a questioni così impegnative potrebbe essere l’occasione giusta per affrontare il tema, depurandolo dalla confusione e dai tanti riferimenti contradditori, tra il fiabesco e l’orripilante, che siamo costretti a digerire. Vogliamo tentare insieme? Vi proponiamo di seguirci.

Perché parlare di morte imbarazza di più noi adulti che non i bambini?

Halloween può diventare un’occasione preziosa per avviare una riflessione impegnativa coi nostri ragazzi. Ma, una volta avviato il discorso, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una strada in salita e che non ci è consentito tornare indietro. Anche perché – riconosciamolo – il tema della morte è qualcosa che disturba più noi adulti che i bambini. Anzi, sui bambini gravano, spesso amplificate e distorte, le stesse incertezze, le stesse titubanze che noi stessi proviamo e a cui fatichiamo dare un nome. Oggi la questione della morte e la sua rappresentazione vivono una sorta di immagine falsata, un cortocircuito di cui i bambini colgono tutta l’assurdità. A livello mediatico non c’è momento in cui la morte non sia raccontata, mostrata, sottolineata in tutti i suoi aspetti, senza filtri e censure. La morte dei bambini a Gaza, quella dei piccoli immigrati che colano a picco nel Mediterraneo, quella dei cittadini ucraini colpiti da missili e droni ci viene proposta e riproposta da tutti i media, a tutte le ore. I bambini guardano e noi, al di là di qualche frase di circostanza - «Povera gente, che ingiustizia, che assurdità» - facciamo fatica ad andare. Ma nel nostro privato, nella vita reale, la morte è stata cancellata. Ormai si muore soltanto in ospedale e c’è una sempre più robusta corrente di pensiero che vorrebbe escludere i piccoli anche dalla visita ai cimiteri. Ne parliamo tra un attimo. Gli esperti parlano di “morte negata” e di “soppressione del lutto”, come se il pensiero della morte fosse motivo di malessere e di disturbo per una società tutta votata all’efficientismo e alla produttività. E quando, come prima o poi capita a tutti, la morte arriva nella nostra famiglia, facciamo di tutto per mascherare, edulcorare, nascondere. Non è una deriva di questi anni, frutto malato della nostra mentalità postmoderna, ma qualcosa che arriva da lontano. Anche i miei genitori, pur con una solida tradizione cristiana alle spalle, e che avevano vissuto una terribile familiarità con la morte durante gli anni della seconda guerra mondiale e della lotta partigiana, hanno cercato in tutti i modi di farmi da schermo quando anche a me, bambino, è toccato confrontarmi con la morte di un familiare. Avevo 9 anni – quindi più di mezzo secolo fa – e stavo giocando a pallone in cortile con papà. Arrivò la mamma con un fazzoletto sugli occhi, si guardarono, lei bisbigliò qualcosa. Colsi un accenno al fratello di mia madre, a un incidente, al fatto che fosse successo tutto pochi istanti prima e che ormai non c’era più nulla da fare. Ma avevo anche capito – perché i bambini capiscono tutto prima che gli adulti decidano di spiegare loro le cose – che i miei genitori non desideravano parlarne. Quel silenzio – oggi lo comprendo - nasceva da un tacito accordo: loro stessi non erano pronti e non avrebbe saputo spiegarmi le cose nel modo considerato giusto per un bambino. E così, con la confusione nel cuore e con il pensiero terribile e opprimente della morte di uno zio che mi era carissimo, continuai da solo a prendere a calci il pallone. Ecco, anche quel ricordo, mi impone adesso di sollecitare chiarezza e trasparenza. Non c’è nulla, neppure un discorso sulla morte, che un bambino non possa comprendere se ha intorno a sé adulti consapevoli e sereni, capaci di ricorrere alle parole giuste. Ma, come già accennato, anche intorno alla morte come per la maggior parte delle questioni che contano davvero nella vita, non servono i discorsi generici. Non possiamo parlare di morte “in generale”, come in un trattato di teologia dell’aldilà, ma dobbiamo cercare di esaminare le diverse situazioni e di offrire riflessioni per quanto possibile specifiche e circostanziate. La morte del nonno è diversa da quella della mamma o del papà. E, ancora diversa, è la morte di una sorella o di un fratello. Se muore un amico o un compagno di classe il coinvolgimento emotivo è evidentemente più intenso, più “vicino”, rispetto alla scomparsa di un adulto, anche ben conosciuto. Come ancora diverse, sono le morti raccontate dai media, le stragi di guerra, le vittime di un terremoto. E, infine, cercheremo di affrontare anche la sofferenza per la morte di un animale. Quando se ne va il cagnolino o il gattino, magari da anni compagni di gioco, non è possibile concludere che “tanto era solo un animale, ne prendiamo un altro”. Per un bambino – e in misura diversa anche per un adulto - si tratta di una perdita autentica, che anche la teologia ha cominciato a prendere in considerazione in una logica di rispetto e di tutela per tutte le creature. E va spiegata in modo semplice anche ai bambini.

Cosa succede se muore la mamma o il papà (la perdita di un adulto)?

La morte di un familiare cambia più o meno radicalmente la vita di un bambino e le sue reazioni saranno tanto più forti quanto più la vicinanza con il defunto era palpabile. La scomparsa di un nonno o di una nonna che vivevano in una città lontana avrà evidentemente un impatto diverso rispetto ai nonni conviventi o che abitavano nelle vicinanze e che quindi avevano con il piccolo rapporti frequenti e ravvicinati. Il tipo di reazione dipende anche dall’età del bambino. Prima dei tre anni il piccolo non è in grado di formulare pensieri complessi e, di fronte alla perdita di un familiare, avverte disorientamento e malessere a cui non è in grado solitamente di una spiegazione. Tra i tre e sei anni cerca di trovare una motivazione, si interroga, presta attenzione ai dialoghi dei grandi. E pretende di sapere: «Ma è morto per sempre? Dove va chi muore? Anche il nonno è andato in paradiso? Per rivederlo devo morire anch’io?». Sono domande inevitabili, che fanno parte del processo di crescita e a cui occorre rispondere in modo sereno, senza nascondere nulla e senza negare che anche noi proviamo sofferenza e disagio. Non servono spiegazioni complicate. Basta spiegare loro che la morte non è una punizione, né un fatto straordinario e non ha nulla di magico, ma fa parte della vita e riguarda tutti. Certo, occorre dirlo con le parole adeguate all’età del piccolo, con una condizione emotiva capace di vedere e toccare le profondità del cuore e dell’anima, manifestando verso il bambino quel senso di protezione che deve caratterizzare il bene adulto. Non è facile, certo. In ogni caso quella morte capitata in famiglia – improvvisamente o come esito di una lunga malattia – coinvolge profondamente anche noi adulti. Quel nonno o quella nonna defunti sono magari nostro padre o nostra madre e ci troviamo a dover consolare la sofferenza di un figlio quando noi stessi avremmo bisogno di consolazione. Ci sentiamo colpiti e vulnerabili ma, proprio per la tenerezza del rapporto che ci lega ai nostri figli, sappiamo che loro in quel momento lo sono più di noi. E quindi tocca a noi chinarci sul loro dolore, cogliere le loro reazioni, intuire le domande che hanno nel cuore e magari non osano pronunciare. Un’attenzione che diventa ancora è più urgente di fronte alla morte di un padre o di una madre. In quel caso il dolore per la perdita può innescare una serie di reazioni complesse che occorre accompagnare con particolare attenzione. C’è la sofferenza acuta per la separazione da una persona con cui si era instaurato il legame privilegiato che unisce genitori e figli. Quasi sempre, al di sotto dei sei anni, il genitore di riferimento è la mamma, ma talvolta anche il papà può rivestire questo ruolo. In queste circostanze il bambino avverte l’incapacità di esprimere in modo compiuto tutto il proprio dolore e l’emozione che viene di conseguenza, l’impossibilità di dare sfogo a tutta la tristezza che scende nel cuore, la rabbia per la perdita subita, il senso di isolamento, spesso anche la sensazione di essere in parte la causa di quello che è successo, soprattutto se la morte è avvenuta improvvisamente, a causa di un incidente. E, sullo sfondo dell’anima, c’è smarrimento per quello che potrebbe succedere, ansia, paura. Difficile descrivere tutte le reazioni che possono innescarsi nel cuore di un piccolo. Gli studi psicologici hanno messo a punto teorie complesse sulle fasi dell’elaborazione del lutto nei bambini che sarebbe impossibile sintetizzare qui. A chi desidera saperne di più consigliamo la lettura di due testi divulgativi, molto chiari, a cui attingere spunti e informazioni: Tabù. Come parlare ai bambini dei temi più difficili attraverso l’educazione emotiva, di Alberto Pellai e Barbara Tamborini (Mondadori, 2020) e Le domande dei piccoli, di Anna Olivero Ferraris (Rizzoli, 2000).

È giusto aiutare un bambino colpito dal lutto con le parole della fede?

Risposta facile: certamente sì, ma a patto che in famiglia ci sia già un atteggiamento stabile e radicato di attenzione per i simboli, per le parole, per la tradizione cristiana. Se i bambini sono stati da sempre coinvolti in alcune semplici pratiche devozionali, come le preghiere della sera o prima dei pasti, se frequentano abitualmente la chiesa con i genitori – anche se non hanno ancora iniziato i percorsi di iniziazione cristiana – sarà più facile nei giorni del lutto trovare consolazione attraverso l’affidamento a Gesù, alla Madonna, all’angelo custode. Ma attenzione, se in ogni momento e in ogni circostanza della vita, la coerenza è un punto fondamentale, di fronte a un lutto che colpisce la nostra famiglia diventa agli occhi dei figli irrinunciabile e determinante. Inutile, insomma indicare a un bambino la recita delle preghiere o sollecitarlo a invocare l’aiuto del Signore come via di consolazione se già non siamo abituati a farlo nella quotidianità. Il bambino non capirebbe e avrebbe la sensazione, magari senza riuscire a mettere bene a fuoco il disagio che prova, di essere di fronte a una strada poco familiare, e quindi anche sgradevole in un momento così pesante. Non solo, il ricorso alle parole e alle immagini della  fede rischierebbe di diventare per il piccolo qualcosa di magico e di straordinario. E quindi di irreale. Ma anche quando le consuetudini familiari sono ben radicate nella fede, si tratta di una sfera da maneggiare con cura, perché il rischio confusione è dietro l’angolo. Quando, poco più che settantenne, mio padre morì, i miei figli avevano 3 e 5 anni. I nonni abitavano a circa 90 chilometri, ma ogni settimana venivano da noi e inondavano i nipoti di regali, rendendo del tutto inefficaci i nostri richiami alla sobrietà. La morte del nonno fu, soprattutto per il più grandicello che l’aveva conosciuto più lungo e con cui aveva un rapporto speciale, qualcosa di catastrofico. Piangeva, interrogava, non trovava pace. Come aiutarlo? Come presentare la situazione nel modo più accettabile possibile? Le parole della fede sembrarono la strada più agevole: «Gesù aveva bisogno di un nonno in paradiso perché – ci venne in mente di dire – anche lassù ci sono bambini che hanno voglia di giocare. Così è stato scelto lui che è così buono». La figlia più piccola che ascoltava attenta, osservò subito: «Ah va bene, allora torna presto perché dopo cinque minuti il nonno si stanca di giocare». Ma quello più grandicello che aveva intuito la fragilità della nostra giustificazione, non si rassegnò tanto facilmente e, tra pianti e singhiozzi, formulò una serie di questioni simili: «Perché Gesù ha scelto proprio il nostro nonno? Non sa che anch’io volevo ancora giocare con lui? Ma allora il nonno preferisce giovare con questi bambini in paradiso piuttosto che con noi?». E chi mai sarebbe stato in grado di rispondere in modo adeguato? Fu la saggezza della nonna a toglierci dai guai: «Ci sono tante cose che non sappiamo e che scopriremo solo in Paradiso. Adesso il nonno che è vicino a Gesù, sa tutto e vede anche il dolore che hai dentro. In questo momento sta dicendo a Gesù di aiutarti. Ascolta, ti sta parlando. Lo senti con il cuore. Adesso facciamo insieme il gioco che ci aveva insegnato il nonno e vedrai che dopo tutto sembrerà meno triste». Più o meno capitò così, ma la strada per uscirne fu tutt’altro che agevole. Insomma, le parole della fede aiutano, ma vanno maneggiate con cura e con rispetto.

Se non abbiamo le parole giuste, si può raccontare una fiaba?

Trovare le parole giuste per accompagnare un bambino, una bambina ad affrontare il tema della morte che irrompe nella nostra casa è, come detto, tutt’altro che facile. E non dobbiamo colpevolizzarci se anche noi genitori, coinvolti nello stesso dolore, facciamo fatica a mostrarci sereni, prendere le distanze, intervenire nel modo più adeguato con pensieri e riflessioni opportune. Una soluzione agevole può essere quella di ricorrere alla forza evocativa di una fiaba, di un racconto. In tutti i secoli l’arte è stato il viatico più efficace per “parlare” nei momenti in cui le parole sembrano più faticose. Raccontare una fiaba nei momenti più tristi, quando una riflessione razionale appare quasi impossibile per un bambino straziato dal dolore, non vuol dire mentire ma percorrere con lui una strada alternativa per rendere meno difficile un momento di angoscia. Non è un caso se tante fiabe della tradizione popolare cominciano proprio con la morte di uno dei genitori. Esiste un Dizionario della fiaba a cura di Gian Paolo Caprettini (Meltemi editore, Roma 1998), in cui c’è una sezione dedicata ai racconti dove protagonista è la morte. L’elenco è davvero sterminato. La classica Cenerentola inizia con la morte della madre. Esistono versioni arabe, cinesi e vietnamite che sembrano la fotocopia del racconto conosciuto da noi. Un richiamo all’universalità della condizione di sofferenza che coglie i piccoli quando i genitori scompaiono prima del tempo. Ma anche i protagonisti di Biancaneve, Bambi e del Re Leone sono orfani. Ancora più tragico il Gatto con gli stivali in cui il mugnaio muore lasciando tre figli orfani. Quale scegliere? Quella che vi piace di più, quella che evoca in voi il ricordo più dolce, magari quello di quando anche voi, bambini, ascoltavate le stesse fiabe dai vostri genitori. Non è vietato neppure inventarle le fiabe, mettendo insieme simboli e riferimenti a cui sappiamo che nostro figlio è particolarmente sensibile. Perché è importante? Non si tratta di trovare una fiaba che spieghi tutto – non esiste – oppure un racconto che sappia esprimere quello che noi stessi non siamo in grado di fare. Importante mettere insieme una trama almeno un po’ positiva. Lo spiega bene la psicologa Maria Varano nel libro Come parlare ai bambini della morte e del lutto (Claudiana 2020): «Non sto parlando di una fiaba che spieghi cosa è successo quanto di una storia che permetta al bambino di identificarsi e di sentirsi compreso e soprattutto sollecitato ad andare avanti, a mantenere la speranza di un futuro desiderabile e meni triste della situazione contingente. Una storia dove possano essere espressi emozioni e dubbi legittimi, e dove vengano suggerite soluzioni possibili e auspicabili». Non si tratta quindi di trovare attraverso la fiaba una soluzione immediata e a basso costo, e neppure di cercare un’allegria forzata, ma di costruire un momento un po’ meno pesante rispetto a quelli che stiamo vivendo. Il solo fatto di provarci contribuisce a rendere un po’ meno grande il dolore che si è impadronito della nostra casa. E i bambini comprenderanno il nostro sforzo.

Cosa succede quando muore un fratellino o un compagno di classe?

La morte di un fratellino, di una sorellina, di un compagno di classe o di giochi non apre la strada solo a un dolore acuto ma anche a una consapevolezza angosciante, quella dell’identificazione. Il bambino comprende che quello che è toccato al fratellino o alla sorellina avrebbe potuto capitare a lui. C’è un’esperienza di morte che assume contorni nuovi e che sollecita un accompagnamento ancora più attento. Purtroppo, quando si verificano questi episodi, i genitori arrivano alla fine sconvolti ed esausti. Sia che la morte sia stata inattesa, per un incidente stradale o per un altro evento tragico, sia che avvenga al termine di una lunga malattia, mamma e papà avvertono su sé stessi il peso della sconfitta. La morte di un figlio – l’evento più innaturale, più atroce e più assurdo che possa capitare a due genitori – lascia sempre segni difficilmente cancellabili. Il senso di colpa si dilata, si fa opprimente, scava nella coppia solchi profondi, domande che rimbalzano con dolorosa insistenza: «Perché l’abbiamo lasciato solo? Perché non gli abbiamo impedito di prendere la bicicletta? Perché non l’abbiamo fatto visitare subito, non appena ha cominciato ad avvertire quei capogiri? Perché non ci siamo rivolti subito a quel centro di eccellenza e abbiamo perso tempo con il medico amico di tuo fratello». In questo quadro è facile immaginare che la sofferenza avvertita dal fratello o della sorellina superstite non riceva tutta l’attenzione possibile. Il rischio più grande è quello di non comunicare agli altri familiari la tristezza che, in modo diverso, avvolge tutti. Invece parlarsi, raccontarsi quello che è successo e come ciascuno l’ha vissuto si rivela sempre un aiuto importante. Anche il senso di rabbia e di impotenza che assale papà e mamma dev’essere raccontato per quello che è, senza tacitare nulla, senza nascondersi. Scoprire che anche i genitori vivono la loro sofferenza e non hanno “ricette” per superare in modo agevole una situazione tanto pesante, può servire ai piccoli per rendere un po’ meno insopportabile la situazione in una logica di condivisione. Mamma e papà devono comunque trovare la forza per ascoltare le paure del figlio o della figlia rimasti, devono rivolgere a lui o a lei, per quanto possibile, attenzioni e premure. Soprattutto devono prestare la massima attenzione ad evitare i confronti, cercando un equilibrio tutt’altro che facile tra il ricordo, giusto e doveroso, del figlio che non c’è più e le esigenze di chi quello o di quelli rimasti. Che devono continuare a vivere, nonostante quello che è successo, costruendo il proprio futuro senza lasciarsi annichilire dalla coltre luttuosa del passato.

E se muore il mio cagnolino?

Può sembrare un problema di poco conto, a questo punto, fermarci a riflettere sulla morte del cagnolino o del gattino di casa. Invece non è così. Per un bambino che ha avuto come compagno di giochi per alcuni anni un cane o un gatto e che deve fare i conti con la morte di quell’animale, la sofferenza può essere profonda e acuta. La cosa peggiore che i genitori possono fare è quella di minimizzare l’accaduto, di considerarlo un problema di nessun conto, oppure di risolvere tutto proponendo immediatamente un sostituto: «Non ti preoccupare, domani andremo al canile o all’allevamento a prendere un altro cagnolino». Occorre invece avere la pazienza di lasciare che il lutto venga elaborato, che il piccolo si renda conto dell’accaduto e che la sofferenza per la perdita diventi meno acuta. Un cane o un gatto che è stato lungamente amato e che per tanto tempo è stato il compagno di giochi preferito di nostro figlio non può essere sostituito facilmente, come fosse un giocattolo rotto. Il bambino comprende – spesso meglio di noi adulti – che siamo di fronte a un essere senziente a cui occorre riservare rispetto. Noi sappiamo che quella presenza può diventare una straordinaria occasione educativa per i nostri bambini. Anche la morte dell’animale può essere lo spunto per riflettere sul significato della presenza accanto a noi di creature preziose, capaci di integrarsi nella nostra vita familiare, di rappresentare un aiuto, un sostegno, un’occasione di gioia. Cosa dire allora a un bambino, a una bambina, che soffre per la perdita del proprio animale? Qualche anno fa, in occasione di una visita pastorale, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano dal 2002 al 2011, salutò un bambino in lacrime. «Ieri è morto il suo cagnolino», spiegarono un po’ imbarazzati i genitori. Tettamanzi consolò il piccolo dicendo che l’animale era già in paradiso ad aspettarlo e che un giorno si sarebbero rivisti e avrebbe di nuovo giocato insieme. Sembrò una pietosa giustificazione per rendere meno triste un bambino in lacrime ma l’arcivescovo, tra lo stupore di qualche teologo vecchio stile, spiegò che tutto ciò che abbiamo sinceramente e profondamente amato in questa vita, continuerà a darci gioia e letizia anche nell’aldilà, animali compresi. Oggi, anche sulla scorta dell’ecologia integrale di papa Francesco, non sono pochi i teologi convinti che, anche per gli animali, la morte fisica non sia l’ultima parola. Un dibattito aperto, ma si tratta di un’apertura che ci consente di trovare qualche spunto in più per accompagnare la sofferenza di un bambino che piange per la morte di quel cagnolino o di quel gattino a lui tanto cari.

Ma noi adulti non dobbiamo essere aiutati?

Evidentemente sì, come più volte abbiamo ripetuto sopra. La difficoltà di parlare della morte a un bambino è direttamente proporzionale al nostro atteggiamento di fronte a quell’ineffabile, a quell’indicibile che riguarda tutti ma a cui tutti vorremmo sfuggire. Negli ultimi secoli ne abbiamo tentato disperatamente la rimozione. Abbiamo trasformato la morte in un tabù di cui è meglio non parlare, l’abbiamo cancellata, occultata, ospedalizzata, lasciata ai margini della vita quotidiana. Non è una deriva moderna se già nel ‘600 il filosofo francese Blaise Pascal scriveva: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, per essere felici hanno ritenuto opportuno non pensarci più». Ecco, dopo oltre quattro secoli, non è cambiato nulla. E forse sarebbe strano pretendere il contrario. Quanto è difficile imparare a vivere senza capire il senso della morte. «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore», dice il salmista. Ma si tratta di un auspicio che rappresenta una difficoltà quasi invalicabile. La morte inquieta, interroga, sgomenta. Sappiamo, alla luce della fede, che Cristo ha vinto la morte, che Dio è il Dio dei viventi, non dei morti. È il Dio della vita. In questa speranza di vita c’è il senso della creazione e, insieme, la nostra capacità di affidamento nell’ultimo istante. Ma quanto è difficile interiorizzare questa verità, trasformarla in una convinzione profonda, capace di superare il dolore umano, la sofferenza assurda e insuperabile che ci coglie di fronte alla morte di una persona cara. Se tutto fosse facile, se il dolore avesse davvero quel significato di terapia interiore che una certa mistica del dolorismo – un po’ pedagogia un po’ purificazione – per troppo tempo ha preteso di attribuirgli, potremmo superare facilmente il senso di fragilità, di finitudine che ci coglie di fronte al pensiero dell’ultima ora, la nostra e quella dei nostri cari. Ma non è così. Ogni morte ci interroga e ci costringe a pensarne e ripensarne il significato. Per superare il senso del limite, della perdita, della morte stessa non c’è una ricetta valida per tutti e in ogni caso. Ognuno deve guardare dentro sé stesso, ognuno deve riconoscere il proprio limite, comprendere che nessuno basta a sé stesso, che tutti siamo fatti per vivere in relazione. Ciò che ci definisce nella vita, ciò che resta della nostra vita, è l’amore che sappiamo e abbiamo saputo donare. Alla luce dell’amore, come ci ha insegnato san Francesco, possiamo pregare “sorella morte” e scoprire che non c’è altro segreto per trasformare un baratro di sofferenza in una collina di speranza. Non è mai facile, mai scontato, ma riuscire a raccontare anche solo qualche lampo di quella speranza a un bambino che soffre per morte di un familiare, di un genitore, di un fratellino, di un amico significa regalargli, nel momento più difficile, la carezza più calda e sincera.

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