
Qualche settimana fa in queste pagine, Luciano Moia (leggi qui) esortava i padri a fare un passo avanti per superare il patriarcato a tanti livelli ancora presente nella nostra società. Certamente, se il cammino di emancipazione femminile iniziato più di un secolo fa ha permesso di tagliare traguardi importanti, oggi c’è soprattutto bisogno di cammini di emancipazione degli uomini, spesso disorientati e privi di modelli alternativi a quelli patriarcali.
Dicendo questo, non si vuol certamente disconoscere che varie forme di violenze e discriminazioni contro le donne persistono. Tuttavia, soprattutto dalla mia prospettiva di studio che è quella della pedagogia e della filosofia dell’educazione, sta emergendo che la vera sfida oggi riguarda il maschile. Sta emergendo anche che troppo a lungo uomini e donne hanno ragionato come due contrapposte “volontà di potenza”. Occorre quindi provare a ripensare il maschile-e-femminile proprio così: il trattino dice la volontà di tenerli insieme, provando a distinguere nell’unito e unire facendo fiorire le differenze, in una logica di strutturante reciprocità.
Reciprocità, infatti, non è parità e nemmeno solo complementarietà. Com’è noto, il cammino di emancipazione delle donne è iniziato rivendicando parità e, di fronte a tanti divari di genere, in molti contesti c’è ancora bisogno di questo tipo di rivendicazioni. Occorre però evitare quella che Edith Stein, nei suoi saggi pedagogici sulla donna, chiama l’esca della parificazione radicale osservando che, quando le donne mirano comportarsi proprio come un uomo e non possono trovare i mezzi e i modi di rendere fruttuose nella vita professionale la propria peculiarità, sono appesantite da grandi sofferenze.
In effetti, nell’ambito degli studi di genere, alle cui intuizioni la pedagogia contemporanea deve essere grata, oltre che di parità si è poi parlato anche di valorizzazione della differenza e della necessità di una complementarietà tra uomini e donne. Anche qui ci sono delle istanze di bene che non possiamo smarrire, ma dobbiamo essere consapevoli che, sottesa all’ideale dell’essere complementari, vi è l’antropologia di matrice liberale che disegna il profilo dell’essere umano come quello di individuo caratterizzato da proprietà e funzioni: un profilo che ciascuno avrebbe già, come se fosse un pezzo di un puzzle ben definito nei suoi contorni, e che permetterebbe poi di entrare in relazione con l’altro.
Tra i rischi di questa antropologia vi è quello di ridurre la persona alle funzioni che svolge (o non svolge) e il senso delle relazioni all’utilità che può derivarne, come nel modello del contratto sociale. Ciò può accadere anche quando si elogia l’interscambialità tra uomo e donna nei compiti di cura familiare. L’elogio è più che corretto, ma il punto non è questo, perché la posta in gioco è molto più alta.
Secondo la logica della complementarietà, infatti, la mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro: l’altro interrompe il mio cammino, come un ostacolo, mentre io cerco di realizzare me stesso. Per questo, il cammino dell’autorealizzazione del femminile rischia di essere espressione di una volontà di potenza, semplicemente opposta al maschile.
Affinché, però, autentici cammini di emancipazione del maschile e del femminile abbiano luogo, i passi avanti vanno fatti insieme in una logica non contrattuale di reciprocità, secondo la quale la realizzazione di sé non è possibile senza l’altro/a. E ciò non solo perché la donna non sarà davvero libera finché l’uomo sarà oppressore, ma anche perché in tal modo anche l’uomo verrà liberato da stereotipi e pregiudizi che appesantiscono, fino a opprimere e persino sopprimere il maschile. Non sfugga che oggi le rappresentazioni del maschile sono strette tra una mascolinità tossica e una mascolinità ridicolizzata (spesso dalle donne), fino alla sua cancellazione. Si pensi anche all’idea secondo cui un papà che si occupa dei figli è un mammo.
Più profondamente: nella logica della reciprocità, la mia libertà non finisce ma inizia dove incontra quella dell’altro che, chiamandomi a rispondervi, la istituisce – per dirla con Emmanuel Lévinas. L’altro allora non è un fastidioso ostacolo da superare e combattere. Piuttosto, nella definizione della mia identità, sono in debito con l’altro, che è un mistero irriducibile a me. E dove l’alterità è ancor più radicale, perché segnata anche dalla differenza sessuale che per la vita umana è la differenza più fondante, maggiori e più profonde sono le possibilità di libertà e fioritura umana. Anche se maggiori sono le fatiche e i rischi.
Nella reciprocità uomo-donna si aprono infatti possibilità di umanità non attingibili altrove. Ciò accade innanzitutto nel dispiegarsi del materno-e-paterno: sempre ogni genitore è tale insieme all’altro genitore, nello spazio della relazione con lui/lei (anche quando fosse assente). Nel reciproco delinearsi dell’esser padre e dell’esser madre, ciascuno sarebbe diverso, se l’altro/a fosse diversa. Non si può pensare allora la paternità senza la maternità, e viceversa.
Riprendo su questo punto l’articolo di Moia. Preziosa l’idea di ripartire dalla paternità per superare il patriarcato, perché esso è innanzitutto il potere dei padri dentro le relazioni familiari. Tuttavia, non posso non dissentire da una affermazione su un punto che è davvero decisivo per dare corpo alla reciprocità: "La maternità non ha bisogno di modelli culturali per essere compresa e definita, è un dato soprattutto biologico. Cresce nel cuore di ogni donna seguendo percorsi naturali".
Cerco di argomentare le ragioni del dissenso dal punto di vista pedagogico. In primo luogo, come la paternità, anche la maternità è intrisa di rappresentazioni simboliche e modelli culturali. Senza considerare questo, non riusciremo a comprenderla nella sua essenza, né ad aiutare (madri e padri) a viverla in pienezza. È importante oggi non dare adito a fraintendimenti e lavorare per liberare le donne e gli uomini da semplificazioni biologistiche della maternità che la descrivono come qualcosa di innato, facile e spontaneo.
Non in tutti i cuori, e non in tutti i corpi, delle donne la maternità segue "percorsi naturali". Basti pensare all’immensa generatività di madri (e padri) che diventano tali per via di adozione. Ma soprattutto: che cosa è per un essere umano un "percorso naturale"? Cosa significa “natura” quando si parla della “natura umana”?
Ovviamente non è possibile qui nemmeno accennare ad ipotesi di risposte. Ma certamente per nessuno di noi la biologia è mai solo biologia; per questo i nostri comportamenti di cura dei nuovi nati sono, in parte, iscritti in essa ma sempre la valicano, dandovi senso. In generale, le nostre esperienze corporee, se vissute in pienezza, sono esperienze anche psichiche e spirituali, così come queste ultime portano con sé le tracce dei vissuti corporei. Il nostro corpo è infatti per noi non solo un oggetto, ma un corpo vissuto: è il primo strato di noi; è superficie che annuncia le nostre profondità e con esse intrattiene un costante dialogo. È questa la maggiore intuizione sul femminile (e sul maschile) che ci viene da Stein, in questo allieva di Edmund Husserl e della fenomenologia, ma anche da un altro allievo meno noto: Eugen Fink.
In tal senso vanno fatte alcune precisazioni, per evitare che il richiamo al biologico e al corporeo ingabbi ancora maternità e paternità in logiche patriarcali e/o funzionalistiche. Innanzitutto, il fatto che i percorsi della maternità siano diversi di per sé non sono indice né di bene né di male per le relazioni educative familiari, ma nelle donne che non ne avvertono la presunta naturalità e non sentono il cosiddetto "istinto materno", possono sorgere sensi di inadeguatezza immotivati, dolorosi e fuorvianti; ciò accade soprattutto se queste donne non hanno con chi condividere la fatica materna che esiste, ma spesso viene negata in nome di una idea romantica di amore.
In secondo luogo, va detto che sull’esistenza dell’istinto materno non pochi scienziati insinuano dubbi e che comunque, nella prospettiva dell’educazione, non ci sarà reciprocità, né reale generatività, se non rinunceremo all’istinto come fondamento di senso della maternità umana. Infatti, di nessuna relazione educativa, di nessuna relazione propriamente umana, l’istinto può essere l’ultima parola e la ragione fondante. Spesso non è nemmeno la prima.
Inoltre, va precisato che poiché noi non siamo solo le cose che facciamo e le funzioni che esercitiamo, non siamo nemmeno sostrato incorporeo di queste funzioni. Dare corpo alla reciprocità non è solo una metafora. Infatti, dicendo che un uomo è padre, grazie ad una donna, che reciprocamente diventa madre grazie a lui, non alludo esclusivamente o necessariamente all’istante del concepimento, perché quello non è il solo atto in cui la reciprocità uomo-donna è generativa. L’esperienza dei genitori adottivi può essere qui illuminante: non hanno concepito i loro figli nella carne, ma nella carne della loro vita quotidiana ogni giorno li amano e li educano.
Nessuna genitorialità è disincarnata. Ciò richiama l’alterità di cui stiamo parlando e la sua specifica fatica, che viene anch’essa spesso taciuta da vari romanticismi. Va invece riconosciuto e detto che vivere la reciprocità del maschile e del femminile dentro le famiglie, imparando ad abitare ogni giorno e nel tempo una differenza così radicale per realizzarsi (e realizzare) insieme, è cosa faticosa come poche altre. E la fatica spesso annebbia la bellezza e la ricchezza.
Anche per questo, i genitori oggi hanno bisogno di sostengono educativo per imparare a crescere nella reciprocità, riconoscendo che l’amore di ciascuno verso il figlio è incompleto e necessita di essere arricchito, sorretto e corretto ogni giorno dalla relazione generativa con l’altro cioè, camminando insieme, padri e madri.
Docente Ordinaria di Pedagogia generale e sociale e di Filosofia dell'educazione - Università di Palermo