I suicidi silenziosi: c'è una nuova epidemia tra gli anziani (e nessuno la vede)

In Italia gli over65 rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio. Nel mondo il loro numero continua ad aumentare. Cosa sta succedendo e perché del fenomeno non parla ancora nessuno
November 27, 2025
Un donna anziana sola, per strada
Un donna anziana sola, per strada
«Per nonno Luigi il lavoro era stato parte importante della vita. E poi, c’erano l’amore per nonna Maria e la passione per la montagna. Era un uomo curioso, colto, entusiasta. La pensione, almeno all’inizio, per lui era stata una nuova opportunità per riappropriarsi dei suoi interessi. A un certo punto, però, la salute aveva cominciato a dargli qualche problema. Anche gli amici di sempre cominciavano ad accusare i colpi dell’età e incontrarsi a volte era difficile. Poi la nonna si era ammalata e quando era morta si era ritrovato solo in una casa troppo silenziosa. I cambiamenti, all’inizio, erano stati quasi impercettibili. Eppure, giorno dopo giorno, il nonno stava diventando un altro. Sorrideva sempre, ma nei suoi occhi c’era una malinconia che non pensavo potesse appartenergli. Avevo la sensazione che volesse isolarsi dal presente per concentrarsi sul passato. Faceva ordine nei suoi ricordi, nei suoi oggetti. E si chiudeva sempre di più in sé stesso. Noi cercavamo di stimolarlo a riscoprire la gioia per la vita che aveva sempre avuto. Quella gioia, però, non c’era più. Il futuro non lo interessava perché sembrava non avere più nulla da offrirgli. E così, un giorno, ha deciso di andarsene. Ancora oggi, dopo tanti anni, mi chiedo perché. Non mi capacito di come un uomo come lui abbia potuto togliersi la vita. Mi domando come mai nessuno abbia capito quanto fosse profonda la sua disperazione. E ancora, dopo tanti anni, non riesco a non sentirmi in colpa…».
Quando una persona si toglie la vita, chi rimane deve dare un senso a un gesto tanto drammatico e definitivo, deve provare a lenire almeno un po’ un’angoscia che appare insostenibile. E spesso il sollievo - anche se non le risposte - arriva dalla condivisione con chi ha vissuto la stessa drammatica esperienza. Da chi cerca di ricostruire la propria vita facendo i conti, ogni giorno, con il dolore, la solitudine e lo stigma che, ancora troppo spesso, accompagna il suicidio. È un cammino lungo e faticoso, che ogni anno viene ricordato il 23 novembre, quando si celebra la Giornata internazionale dei sopravvissuti al suicidio. Nata per diffondere un messaggio di speranza e solidarietà, la ricorrenza onora la forza del ricominciare, promuove il sostegno e la vicinanza. E invita a non dimenticare mai il peso della sofferenza. Di chi è rimasto, ma anche di chi se n’è andato. Di chi stava così male da non riuscire a vedere nessun’altra possibilità di sollievo se non quella di togliersi la vita. Certo, è un pensiero duro da accettare, impossibile da comprendere. Il suicidio, però, non è un gesto d’impulso; piuttosto, è un percorso che si compie per arrivare a una conclusione. Un percorso dove il dolore e la fragilità si stratificano e portano a perdere fiducia nel presente e, ancor più, nel futuro. Proprio com’è successo a nonno Luigi. La sua storia ben racconta quello che gli esperti definiscono silent suicide. «Suicidio silenzioso» perché, quando una persona anziana si toglie la vita lo fa nel silenzio della solitudine. E quel silenzio, poi, continua ad avvolgere un fenomeno ancora poco noto. Eppure, purtroppo, drammaticamente presente nella nostra società.
I tassi di suicidio fra le persone d’età pari o superiore a 65 anni, infatti, sono i più elevati in buona parte del mondo. In generale, tendono ad aumentare con l’avanzare del tempo e spesso continuano a crescere anche fra i centenari. Un’analisi dei dati del World Health Organization Mortality Database condotta su quasi 700mila casi di decesso per suicidio nella popolazione anziana in 47 Paesi nel mondo ha evidenziato che nel 2021 il tasso di mortalità per suicidio fra gli over 65 era pari a 15,99 casi per 100.000 abitanti, dato decisamente più elevato rispetto ai 10,87 casi fra la popolazione generale. In Italia, secondo gli ultimi dati ISTAT disponibili, ogni anno si registrano circa 4.000 morti per suicidio. Anche nel nostro Paese, come a livello mondiale, fra i più giovani il suicidio è una delle prime cause di morte. Per contro, fra gli anziani, le cause prevalenti sono altre: gli over65, però, rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio. «Per la precisione, i suicidi degli anziani sono il 37 per cento di quelli totali, sebbene le persone con 65 anni e più d’età in Italia siano il 24 per cento della popolazione generale. Il fenomeno riguarda soprattutto gli uomini, le grandi città e le persone con più di 80 anni. E ha una frequenza che, a mio parere, ha raggiunto livelli intollerabili e che, considerato come sta invecchiando la nostra società, non può che essere destinata ad aumentare» sottolinea il professor Diego De Leo, psichiatra, Presidente dell'Associazione Italiana di Psicogeriatria e dell’Associazione De Leo Fund, che offre supporto psicologico gratuito alle persone che hanno subito un lutto traumatico.
«L’Italia, però - nonostante sia uno dei Paesi più vecchi al mondo - purtroppo si conferma un luogo particolarmente ostile per gli anziani, non solo a causa delle patologie fisiche ma soprattutto per il peso della solitudine, ben più evidente rispetto alla media degli altri Paesi europei. La solitudine ha gravi conseguenze sia sulla salute fisica che su quella mentale. Ed è spesso preludio della depressione, che aumenta il rischio di diverse malattie. E del suicidio». Solitudine, senso di vuoto, disagio psicologico, malessere fisico, ma anche il pensionamento, l’uscita dei figli da casa o la perdita del coniuge. Possono essere tanti gli eventi che inducono una persona anziana a non desiderare più di vivere… Sì, gli eventi possono essere tanti e spesso sommarsi fra di loro. La malattia, così come la perdita di relazioni significative, possono portare con sé sentimenti di disperazione e di mancanza di speranza. E ancora, ci si deve confrontare con l’indebolimento della rete delle amicizie, la frammentazione dei legami familiari, il timore di uscire di casa, soprattutto nelle grandi città, che porta a isolarsi maggiormente. E poi, c’è l’invisibilità: a un certo punto della vita è un po’ come se si diventasse socialmente trasparenti. Gli altri non ti vedono più, tu ti senti una nullità e questo può diventare un peso molto difficile da sostenere. Si ha la sensazione che niente e nessuno possano più essere d’aiuto. E allora uscire dalla vita può apparire come l’unica soluzione possibile per annullare le tante perdite e i tanti cambiamenti che la vecchiaia comporta. E questo sembra valere soprattutto per gli uomini, almeno stando a quanto ci dicono i dati, che evidenziano come il tasso di suicidi maschili sia decisamente più alto (oltre il 70 per cento del totale) e registri un aumento esponenziale proprio in età avanzata.
Chi oggi è anziano si è formato in un contesto sociale e culturale molto diverso da quello attuale, dove gli aspetti concreti della vita quotidiana, della casa, della famiglia, erano «delegati» alle donne. Per un uomo può essere più difficile allora prendersi cura di sé, fare cose - cucinare, lavare, stirare, mettere in ordine… - che non ha mai fatto. E se poi sopraggiungono anche la malattia o la depressione, ci si può sentire così avviliti da arrivare a considerare del tutto inutile occuparsene. Il suicidio di una persona anziana che immagine ci rimanda della nostra società? Quali difficoltà, quali fragilità, ci segnala come più urgenti da affrontare? Penso sia la fotografia di una società che non è in grado di guardare davvero nella vita delle persone per coglierne i bisogni reali, una società che non sa fare posto a tutti, occuparsi di tutti. Spesso, ci nascondiamo dietro le questioni economiche, ci diciamo che mancano i soldi. A mio avviso, però, il tema è anche quello dell’organizzazione perché, quando le risorse sono poche è fondamentale usarle al meglio. E può servire davvero poco per cambiare la prospettiva. Io ho vissuto 20 anni in Australia e ricordo che, per esempio, chi si occupava di assistenza sociale aveva sempre in agenda le ricorrenze che potevano essere più difficili da affrontare per una persona anziana. Un anniversario, un compleanno, la data di una morte… Momenti duri, ma che potevano apparire un po’ meno dolorosi con qualcuno accanto che non ti facesse sentire solo, che provasse ad alleviare la tristezza, il dolore. A volte basta una parola, un gesto d’affetto per salvare una vita… E quando pensiamo a una persona anziana, credo che ancor di più sia fondamentale fare attenzione alla sua individualità e riconoscerle un valore anche se non ha più un ruolo attivo nella società.
Chi sta male, chi pensa di non avere più motivo per vivere, prova in qualche modo a far trasparire la sua sofferenza, cerca di mandare una richiesta d’aiuto? Per gli esperti esistono dei warning signs, dei «segnali di avvertimento, di pericolo», che non sempre, però, sono così facili da interpretare. E spesso si riescono a riconoscere solo dopo che il dramma si è compiuto. Per esempio, ci si rende conto di come la persona che non c’è più continuasse a manifestare la necessità di andare a far visita a un amico, a un familiare. O ancora, dedicasse molto tempo a riordinare le proprie cose - a volte magari mettendo dei cartellini con i nomi delle persone a cui regalarle - o a rivedere le proprie volontà testamentarie. Spesso, a queste azioni non si dà molto peso, si pensa che siano un modo per impegnare il tempo. E invece, possono nascondere l’urgenza di un ultimo saluto alle persone care, di rendere evidente l’ordine da dare agli oggetti a cui si tiene di più. Sì, ci possono essere dei segnali, anche importanti. Leggerli, però, non è sempre possibile, soprattutto perché spesso si perdono nella solitudine in cui vive chi li manda. Nel vuoto e nell’incertezza in cui non si trova più alcun senso nel continuare a convivere con la sofferenza, in cui non si vede più alcuna prospettiva, alcuna speranza di cambiamento. Ed è allora che il pensiero del suicidio diventa sempre più forte e appare come la sola, definitiva, scelta. Che cosa significa, per chi rimane, perdere una persona cara in un modo così drammatico? Quali sentimenti prevalgono? Restano tante domande assillanti. Perché non ho capito? Avrei potuto fare qualcosa per impedirlo? Che cosa sarà successo in quegli ultimi istanti? Resta il senso di disorientamento per un gesto forse ancora più incomprensibile perché compiuto da una persona che, proprio per la sua età, si credeva potesse essere più preparata ad affrontare le difficoltà. Restano i sensi di colpa. L’amarezza. Tanto, tanto dolore.
Si cercano risposte, spiegazioni, ragioni; ma soprattutto conforto, affetto, condivisione. E anche per chi rimane, allora, è la solitudine il peggior nemico con cui confrontarsi. Come si sconfigge questo nemico? Credo siano fondamentali un’educazione agli affetti, una cultura delle relazioni, che devono cominciare già dall’infanzia. Quando ero bambino, mio nonno mi ripeteva sempre questa frase: «chi trova un amico, trova un tesoro». E per molto tempo io mi sono interrogato su quali gemme preziose potesse nascondere quel tesoro… Il tesoro vero, l’unico di cui abbiamo veramente bisogno - anche se troppo spesso oggi fatichiamo a comprenderlo - è quello che ci regalano i legami profondi, le amicizie che coltiviamo nel tempo. Dobbiamo riscoprire il valore di avere accanto a noi una persona cara su cui poter sempre contare. E fare in modo che questa consapevolezza diventi un tesoro anche per i più giovani.

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