Ma come si fa ad educare un figlio alle relazioni?
di Luciano Moia
La violenza contro le donne non è un destino ineluttabile, ma l’esito di un modello maschile radicato che solo un nuovo percorso educativo può davvero scardinare. Oggi sempre più uomini lo riconoscono e cercano strade diverse, sostenuti da movimenti e percorsi di auto-riflessione: ecco come

Violenza sulle donne. Perché solo l’educazione potrà cambiare le cose?
È una domanda che non ha una risposta semplice. Per entrare nel vivo di questo tema in modo serio occorre tenere presenti una serie di questioni complesse, che vanno dalla storia all’antropologia, dalla pedagogia alla relazione tra i sessi, dalla questione del gender alla psicologia e a tanto altro ancora. Lo diciamo in premessa perché pretendere di risultare esaurienti su una questione tanto vasta e tanto dibattuta vorrebbe dire non avere consapevolezza di questo intreccio importante, a cui guardare con attenzione e rispetto. Quindi mettiamo subito le cose in chiaro. Oggi affrontiamo un tema decisivo per l’equilibrio delle famiglie e della società. Ma non intendiamo parlare in generale della violenza sulle donne, né delle statistiche che, secondo i diversi approcci, possono essere valutate in discesa o in salita. E neppure vogliamo approfondire tutti gli aspetti della legislazione che in questi anni è stata approvata – il cosiddetto “codice rosso” – per contrastare il fenomeno, senza tuttavia risolverlo. Sono questioni di grande importanza, più volte dibattute, di cui parliamo in modo diffuso in altra parte della nostra newsletter. Qui ci concentriamo essenzialmente sull’ educazione “al maschile” – di cui le donne stesse possono e debbono essere protagoniste - nella convinzione che solo quando i giovani maschi - che diventeranno mariti, partner, compagni delle donne, padri - riusciranno a mettere da parte gli stereotipi, i modelli relazionali, le convinzioni profonde e radicate che per secoli hanno caratterizzato i rapporti di genere, saremo sulla buona strada per risolvere le tragedie della violenza sulle donne. Non basta una vaga e generica educazione al rispetto. Occorre un approccio educativo capace di accompagnare i ragazzi a superare tutto quel vasto intreccio di idee sedimentato nei secoli e tuttora largamente diffuso che trova una sintesi efficace nelle parole machismo, maschilismo, patriarcato. Sono termini che hanno sfumature diverse ma che sono tutti, in qualche modo, finalizzati ad affermare la supremazia dell’uomo sulla donna. E, in particolare, dell’uomo che si relaziona con una donna in quanto amico, fidanzato, marito e padre. Ma anche come “superiore” sul posto di lavoro, come istruttore sportivo, come direttore spirituale. Non succede sempre così, ma dobbiamo dirlo senza infingimenti. L’esistenza di rapporti asimmetrici, come quasi sempre avviene, apre la strada alla subordinazione come prassi ordinaria che può sfociare nella violenza nelle sue varie declinazioni: verbale, psicologica, spirituale, fisica. Una non è meglio dell’altra. E spesso una suscita e provoca l’altra. Facile obiettare: «Ma cosa c’è di strano, è sempre stato così». A parte che non è vero. Un’analisi storica attenta potrebbe trovare in varie epoche esempi importanti di pari dignità e di cultura controcorrente. Pochi esempi, certamente, ma sufficienti per dimostrare che la prospettiva maschilista non ha mai goduto di un’egemonia assoluta. E, inoltre, dato e non concesso che “sia sempre stato così”, perché mai dovremo perpetuare una logica che ha sparso sofferenze e ingiustizie lungo i secoli ed è arrivata fino a noi mostrando il suo volto deteriore e assurdo, cioè continuando a provocare le stesse ingiuste e le stesse sofferenze di sempre, in famiglia e nella società? Sì, siamo davvero convinti che la violenza sulle donne sia l’espressione peggiore di un’antropologia relazionale tutta pensata al maschile, una violenza multiforme che abbiamo il dovere di condannare e di combattere a partire proprio dai protagonisti di questa violenza, cioè da noi uomini. E per farlo non abbiamo che un’arma, l’educazione dei giovani maschi. A cominciare dai nostri figli. Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, diciamo no. La violenza sulle donne non è una piaga inevitabile. Si può e si deve combattere e cancellare con un nuovo approccio educativo. È un processo lungo ma prima o poi dovremmo cominciare. Ecco come si potrebbe fare.
Da dove cominciare per educare gli uomini al rispetto delle donne?
Possiamo scegliere vari luoghi, varie circostanze, varie agenzie educative per progettare un’educazione sistematica al rispetto, ma se non cominciamo in famiglia non servirà a nulla. E se, accanto alla famiglia, non ci saranno la scuola, la Chiesa, la società, lo sforzo sarà pressoché inutile. Vediamo perché. In queste settimane si parla tanto, e giustamente, di educazione all’affettività e alla sessualità. Abbiamo già proposto varie riflessioni a proposito del disegno di legge Valditara che impone il consenso informato dei genitori. Un principio del tutto condivisibile, a patto che non diventi un alibi per bocciare qualsiasi progetto sul tema. Ma ne parleremo ancora, la discussione del testo – prevista per questa settimana – è slittata a dicembre. Così l’Italia rimane l’ultimo Paese europeo a non avere una legge che regolamenti una questione così delicata. Vedremo cosa succederà. Ma basterà una legge che impone alle scuole di affrontare la questione affettività per risolvere tutti gli interrogativi connessi al mondo delle relazioni? Certamente no. Il primo passo per crescere uomini che “non odiamo ma amano le donne” (per dirlo con il titolo di un libro di Monica Lanfranco, una scrittrice e formatrice che da anni lavora sul tema) dobbiamo farlo in casa, quando i figli sono ancora piccoli. Dalla qualità del rapporto che i bambini coglieranno nelle parole, nei gesti, nelle abitudini, nell’organizzazione domestica decisa dai loro genitori, dipenderà in larghissima parte il loro approccio affettivo-relazionale. Una coppia di genitori che ha scelto di impostare il proprio rapporto all’insegna di una reciprocità rispettosa e sorridente regala ai propri figli la più bella lezione sul valore della differenza di genere. Quella della famiglia è una “cattedra” che non ha bisogno né di parole difficili né di saperi specialistici. Basta ascoltare. C’è un padre che, di fronte ai figli, si rivolge alla madre con parole affettuose, cariche di riconoscenza e di considerazione? Attento a non far mai degenerare il confronto in modo sgradevole? Sollecito nella condivisione degli impegni legati all’educazione? Un uomo che, per esempio, non si fa problemi quando è necessario andare a scuola per parlare con i professori, anche se gli altri genitori sono al 90 per cento mamme? E, con lo stesso atteggiamento di collaborazione, affianca la moglie nella gestione ordinaria e straordinaria della casa (spesa, cucina, pulizie, bollette, appuntamenti vari)? Questo padre, che ha scelto la cifra della condivisione globale oltre tutti gli stereotipi e che sa arricchire la propria presenza con i parametri della tenerezza lasciando sullo sfondo i vecchi schemi della normatività, non avrà bisogno di troppe parole per far capire ai suoi figli maschi come va costruita una relazione serena e soddisfacente con le donne. Quei bambini cioè avranno tutti i fondamentali migliori per essere domani uomini rispettosi e consapevoli. A questo punto dovremmo chiederci da dove trae ispirazione un padre così equilibrato, collaborativo, sereno. Facile rispondere. Dalla presenza di una madre, cioè di una moglie, di una compagna, di una partner che ha saputo costruire i propri spazi in famiglia, e non solo, mettendo in luce e valorizzando allo stesso tempo gli spazi del marito. Non c’è paternità consapevole che non si rispecchi in una maternità altrettanto serena. È il grande gioco della reciprocità che, anche sul fronte dell’educazione all’affettività, diventa lo snodo decisivo. Una questione fondamentale e affascinante a cui prima o poi dedicheremo una “cassetta degli attrezzi” perché, se ci pensiamo bene, tutto discende da lì. Ma qui non abbiamo il tempo di approfondire la questione. Chiediamoci, allora: tutto risolto? Certamente no. Ma questo è senz’altro un buon inizio.
Ma quanti sono i genitori che sanno parlare di affetti e di relazioni?
Domanda giusta ma a cui si può rispondere solo in modo deduttivo. Il degrado educativo che incontriamo ogni giorno, in tutti gli ambienti frequentati dai nostri ragazzi, sembra orientare verso una valutazione negativa di ciò che oggi si apprende nella maggior parte delle famiglie. D’altra parte anche i genitori più consapevoli e più efficaci rischiano ogni giorno di vedersi smontare tutta la loro quotidianità e il loro impegno nella coerenza relazionale di fronte a un immaginario collettivo che alimenta i peggiori istinti e prepara la strada alla ferita, al dileggio, all’umiliazione della donna. Non sempre va così. Ma se succede – come succede in troppe situazioni – abbiamo il dovere di interrogarci e di cercare strade alternative. Ecco perché l’educazione all’affettività e alla sessualità è un punto di partenza irrinunciabile. Si deve sempre e comunque partire dalla famiglia – come detto – ma dobbiamo riconoscere con onestà e con realismo che solo una minoranza di genitori è in grado di provvedere in proprio. La palla passa quindi alla scuola, con tutte le fatiche di cui abbiamo più volte parlato. Ma anche alla comunità ecclesiale, dove – come più volte raccontato su queste pagine – le esperienze interessanti non mancano, anche se si tratta di percorsi un po’ isolati, sporadici, in cui manca una linea condivisa, anche per quanto riguarda i contenuti. Sappiamo che la Cei sta finalmente affrontando la questione in modo organico. È nato un tavolo interdisciplinare, con la presenza degli Uffici nazionali per la pastorale di famiglia, scuola, giovani, disabilità, coordinato dal Servizio per la tutela dei minori, che ha proprio questo obiettivo: preparare una serie di linee guida per accompagnare gli adolescenti nello sviluppo della loro identità sessuale ed affettiva. Ci sono già state alcuni incontri guidati dalle formatrici dell’Università Cattolica Anna Bertoni e Luisa Roncari, ed altri ne seguiranno nei prossimi mesi. Ma, in attesa di questo documento organico che approfondisce, riprende e rilancia in modo strutturato quello che già viene fatto in tante diocesi, associazioni, movimenti, non possiamo evitare di interrogarci sulle questioni che rendono così difficile proporre un approccio equilibrato dei nostri ragazzi al pianeta amore. Un approccio che non si traduca mai in possesso, né dominio, né prevaricazione, ma solo in rispetto e libertà.
Come i nostri ragazzi costruiscono la loro idea di amore? Cominciamo dalle parole
Perché è importante dare uno sguardo a quello che ci circonda per capire quali sono i punti fondamentali su cui intervenire? Ci pare evidente. Se non intercettiamo l’humus culturale che nutre l’immaginario dei nostri figli adolescenti in fatto di affettività, di emotività, di sessualità, di relazione tra i generi non riusciremo a comprendere come smontare l’apparato dominante di maschilismo più o meno esplicito che continua a trasformare la donna in territorio da predare e umiliare. Per questo, se vogliamo davvero sradicare questo atteggiamento nutrito di pesanti stereotipi di genere, non possiamo e dobbiamo tollerare nulla. A cominciare dal ricorso agli epiteti più deteriori che i nostri ragazzi apprendono come intercalare ordinario fin dalle prime classi a scuola. Parliamo con chiarezza, senza falsi pudori. Ci sono due termini che racchiudono tutto il peggio, e cioè tutto il disprezzo sessuale e umano per la donna e per il maschio non dominante. Non fingiamo di non saperlo, quelle parole tanto fastidiose, ma che qui dobbiamo scrivere turandoci il naso per non apparire fuori dal mondo, sono troia e frocio. Con il primo termine i ragazzi bollano, per esempio, l’insegnante un po’ troppo esigente che ha inflitto un brutto voto, ma anche la compagna che i maschi della classe considerano troppo zelante e, in generale, tutte le donne che vengono considerate unilateralmente colpevoli di qualcosa. L’insulto sessuale, che colpisce la donna, chiunque sia – dalla persona più umile alla presidente del Consiglio – è destinato a violarne la sfera più intima, riduce la ricchezza personale a un solo, monotono e squallido aspetto, ipotizzando velenosamente un atteggiamento che la umilia a la riduce a corporeità senza dignità e senza moralità. Naturalmente il ragazzino di 12 anni che lancia questo tipo di insulto perché tutti in classe o al campo sportivo lo ripetono senza troppi distinguo, non si rende conto di essere già diventato vittima di quel machismo ottuso che prepara la strada all’ingiustizia di genere e, nei casi peggiori, alla violenza di genere. Ma noi adulti, genitori, educatori, insegnanti, abbiamo il dovere di farlo comprendere in una logica di scelta educativa che è anche prevenzione e scuola di civiltà. Non servono discorsi complicati per avviare percorsi di educazione alla sessualità e all’affettività. Quelli poi verranno dopo, sotto la guida di specialisti equilibrati e capaci. Ma ora basta partire da quello che i ragazzi ci dicono e accompagnarli a comprendere quanta ingiustizia e quanto inutile disprezzo ci sia dietro una parola oscena che resta tale in ogni circostanza e non viene mai svuotata di significato solo perché la ripetono tutti, magari in modo scherzoso. Discorso identico per l’altro termine, che già alla scuola primaria si sente ripetere quando si intende svilire e umiliare la personalità di un compagno che, per esempio, non ama giocare a pallone, prende le distanze dal gruppo dei pari, mostra di non gradire scherzi pesanti e linguaggio “virile”. Qui si tratta di un altro tipo di violenza di genere, non meno detestabile, ma ancora più subdola perché frutto di una sottocultura del sessismo e dell’omofobia che nei secoli ha alimentato discriminazioni e stermini. Lo dobbiamo dire ai nostri ragazzi, con parole ed esempi che possono essere facilmente compresi, se non vogliamo renderci complici di un malcostume diffuso che, come sappiamo, non è mai innocuo perché mina in profondità le relazioni e prepara la strada a stereotipi che, giorno dopo giorno, parola dopo parola, costruiscono muri di intolleranza. E l’intolleranza, fuori e dentro dasa, è il terreno di coltura della violenza.
Come i nostri ragazzi costruiscono la loro idea di amore? L’orrore della pornografia
A questo punto dovrebbe essere chiaro perché è indispensabile parlare di sessualità e di affettività ai nostri bambini e ai nostri ragazzi in chiave di prevenzione alla violenza di genere. Se non lo facciamo noi in famiglia, se non lo fa la scuola – e sappiamo che non lo fa – se non lo fa la comunità ecclesiale – che lo fa con le incertezze a cui abbiamo già accennato e a cui si vuole urgentemente porre rimedio – continueranno a farlo altri, come avviene da sempre, con i risultati disastrosi di cui vediamo le conseguenze. E chi sono questi “altri”? La prima, devastante e universale “scuola” di sessualità che da almeno due generazioni insegna ai giovani maschi, e non solo, tutto il peggio che si può sapere sul pianeta sesso è la pornografia. Tutte le ricerche dimostrano che le due parole più cliccate sul web sono sex e porn. Esistono anche studi importanti che raccontano le conseguenze psicologiche causate ai ragazzini preadolescenti dall’abitudine di perdere tempo sui siti pornografici. Tutto è facilmente a portata di mano. E lo sarà anche quando entrerà in vigore la legge che dovrebbe limitarne la fruizione. Sui social girano già consigli e strategie per aggirare il divieto. Non entriamo nel merito della questione perché ci porterebbe lontano. Ma proibizioni e divieti, se non sono accompagnati da un’azione educativa mirata, non sono mai serviti a nulla. Il modo per bypassare l’ostacolo è già a disposizione della tecnologia che i nostri ragazzi padroneggiano alla grande. D’altra parte, quando si concede lo smartphone anche a bambini di 8-10 anni senza preoccuparsi di impostare e seguire un’attenta educazione digitale, i rischi sono enormi. Dal punto di vista cognitivo, da quello culturale ma anche, diciamolo in modo trasparente, da quello spirituale. Ogni tanto si sente ripetere: «Ma che male c’è? Così imparano come si fa». Ma imparano anche che la sessualità non c’entra nulla con l’amore, che i corpi, quasi esclusivamente quelli delle donne, possono essere offesi, insultati, vilipesi, disumanizzati, violentati. La pornografia è dannosa perché mostra, con scelte iperboliche e irrealistiche, che l’unica finalità dell’eros è un piacere cupo e insaziabile che esclude qualsiasi riferimento alla tenerezza, al rispetto, alla delicatezza. Insomma, tollerare la pornografia e ignorarne le conseguenze, è uno degli errori più gravi che noi adulti possiamo fare. È un gesto che trasuda mancanza di consapevolezza. Non dobbiamo balbettare, dobbiamo prendere le distanze con fermezza e raccontare ai nostri figli che dietro quei corpi senz’anima, dietro quei rapporti senza alcuno spessore relazionale, c’è un commercio ignobile perché sfrutta debolezze che dovrebbero trovare ben altro sostegno e causa gravi dipendenze. L’abbiamo scritto tante volte ma non si stancheremo di ripeterlo. La pornografia non è un passatempo tutto sommato “innocente”, come talvolta si sente ripetere – c’era anche chi la presentava come efficace sistema per la terapia di coppia – ma è l’anticamera più immediata e più devastante per la violenza di genere. Mettere da parte gli imbarazzi e spiegarlo ai nostri ragazzi è uno dei punti fermi di qualsiasi percorso educativo all’affettività e alla sessualità.
Come i nostri ragazzi costruiscono la loro idea di amore? Social e media
Ma quando parliamo di pornografia non intendiamo solo quella che si cerca sui siti dedicati. Immagini, parole e situazioni pornografiche arrivano ai nostri ragazzi anche – e oggi soprattutto - dai social, dalle serie sulla pay tv e, dobbiamo dirlo senza paura di apparire fuori dal tempo, anche in qualche occasione dalla tv generalista. Social a parte, dove si può trovare di tutto, in modo interattivo, e per cui vale il discorso che abbiamo fatto nel paragrafo qui sopra, potrebbe sembrare sorprendente il riferimento alla tv “ordinaria”, anche in orari che dovrebbero essere protetti. Due esempi soltanto. Il primo, già più volte sottolineato ma che è bene continuare a ribadire, riguarda lo sfruttamento del corpo femminile nella pubblicità. Esistono per esempio spot di profumi – e avvicinandoci a Natale sono immagini si moltiplicano – che evocano atmosfere ambigue, cariche di sottointesi e di erotismo deteriore, in cui il corpo di modelle bellissime viene “suggerito” in ambiti che dovrebbero evocare le sensazioni suscitate delle fragranze pubblicizzate. Ma il canovaccio è sempre lo stesso. Ammiccamenti, sguardi carichi di desiderio, angoli di corpo ombreggiati e annunciati con tutto un contorno di simbologie che rimandano a relazioni tristi e contorte. Ecco, quando spot del genere interrompono le trasmissioni che stiamo seguendo insieme ai nostri ragazzi, dobbiamo avere il coraggio di prendere le distanze e di introdurre una riflessione sulla dignità del corpo, sulla mercificazione che ne viene fatta in quel contesto, sulla negazione dell’intimità per suscitare emozioni e vendere più facilmente un prodotto. Quindi un uso invasivo della sessualità che impedisce la costruzione di una affettività serena e che alimenta pregiudizi e false convinzioni. Diciamolo senza paura. Ma esistono anche trasmissioni seguitissime che, nonostante anni di femminismo e di difesa della dignità delle donne, non si rassegnano a mettere da parte il facile ricorso alla valletta ammiccante e vestita – si fa per dire – in modo provocante per contribuire a far decollare l’audience. Qui la pornografia esplicita non c’entra nulla. Anche perché all’ora di cena sarebbe impossibile. Ma la presenza di una ragazza la cui unica funzione è quella di percorrere su e giù lo spazio scenico con la scusa di girare delle letterine, mostrando il proprio corpo attraverso spacchi, scollature, mini cortissime, trasparenze e quant’altro, rimanda ad allusioni simboliche impossibili da equivocare. Dietro quell’apparente innocenza c’è un carico di sessismo e di discriminazione nei confronti delle donne che appare il retaggio di un triste passato che speravamo di aver dimenticato. Si tratta di una stonatura culturale che dobbiamo avere la delicatezza e la capacità di far notare ai nostri ragazzi. Mentre da una parte c’è tutto un mondo impegnato a contrastare la violenza di genere in tutti i suoi aspetti, c’è ancora una tv che ammicca agli stereotipi del peggiore maschilismo. Attenzione a comprendere bene questo discorso. Nessuno si indigna per l’abbigliamento della valletta di turno che è più o meno quello che si vede la sera davanti a qualsiasi discoteca e nessun proposito di associare l’outfit provocante al rischio di scatenare la violenza di genere che non ha mai – lo ripetiamo ancora - in alcun modo e in nessun contesto, giustificazioni possibili. Ma è il momento in cui viene mostrato e le funzioni che dovrebbe assolvere che possono diventare assurdamente diseducative e suggerire l’immagine di una donna costretta a puntare tutto sul suo corpo per attirare l’attenzione dei telespettatori.
Nuovi maschi che amano le donne. Perché sperare?
A questo punto, dopo aver accennato alle tante e complesse difficoltà che, nella famiglia e nella società, si frappongono a un progetto educativo efficace sul fronte della sessualità e dell’affettività come prevenzione alla violenza di genere, potrebbe sembrare che le ragioni per sperare siano quasi inesistenti. Non è così. I problemi non mancano ma ce la possiamo fare. Ecco perché. Sappiamo che il primo passo per sconfiggere la violenza è riconoscerla. E, soprattutto, riconoscere il modello maschile che alimenta e mette in atto quella violenza. È quello – per intenderci – del maschio duro e insensibile, dell’uomo che “non deve chiedere mai”, del maschio tutto di un pezzo, cresciuto superando riti di passaggio in stile militare e frasi del tipo “non piangere mai, non sei una femminuccia”. È il modello del maschio alpha che governa con pugno di ferro e sottomette le “sue” donne, che non si innamora mai veramente perché le tenerezze e le smancerie non sono cose da duri. Ebbene, oggi sono sempre più numerosi i giovani uomini che sorridono di fronte a questi stereotipi maschili che sarebbero ridicoli se non fossero tragici, e sono convinti che sia urgente e importante staccarsene. Sono ragazzi, sono uomini, sono padri che hanno avviato un processo di liberazione dalla gabbia violenta del machismo becero e inutile. Qualcosa di simile alla liberazione condotta dal femminismo degli anni Sessanta. Solo che il processo a cui sono chiamati gli uomini è più complicato. Le donne avevano ben chiaro i modelli di sopraffazione e di dominio contro cui intendevano combattere. Da quei movimenti è nata tutta una corrente di pensiero che ha rivoluzionato il modo di pensare e ha sollecitato nuovi modelli relazionali. Basti pensare al discorso, tutt’altro che definitivo, sulle differenze e sull’identità di genere che ha ci ha obbligato a rivedere consuetudini millenarie segnate da un patriarcato unilaterale e ingiusto. Un processo tutt’altro che concluso, con fraintendimenti, esagerazioni e complicazioni ideologiche – basti pensare il dibattito sul cosiddetto gender, con ombre e luci su cui dovremmo tornare presto anche su Sofia – ma che ha in qualche modo segnato una svolta culturale. Ecco, tutto questo, per quanto riguarda la riflessione sull’identità maschile, è solo all’inizio. Dopo aver discusso per anni sull’urgenza di superare modelli condannati dalla storia e dalla ragione, dopo aver dibattuto sull’eclissi del padre, siamo ancora a metà del guado. E, di fronte alla lunga scia di violenze e di femminicidi che quasi quotidianamente la cronaca ci presenta, ci sorprendiamo ogni volta e ci chiediamo da dove nasca tutto questa sofferenza, tutta questa incomprensione, tutta questa rabbia. Per fortuna sono sempre di più anche gli uomini che se lo chiedono, che comprendono la necessità di andare oltre, di avviare una riflessione su sé stessi e sulla qualità delle proprie relazioni. Sono nati anche tanti movimenti di auto-aiuto, associazioni di uomini e di padri (….. qualche esempio… ) impegnati a rivedere schemi antropologici ormai inadeguati e a cercare nuove strade per mettersi in gioco e aprire varchi di luce nel buio della paura e dell’incomprensione. Ne abbiamo tutti abbastanza di modelli tossici di maschilità e vorremmo davvero come cittadini maturi e come cristiani consapevoli e fedeli al Vangelo sostenere un processo educativo capace di allungare lo sguardo sulla speranza in un futuro di dialogo e di serenità nelle relazioni più belle e più decisive, quelle familiari.
Per approfondire...
Abbiamo più volte accennato alla complessità delle questioni affrontate ma vogliamo ribadire che l’emergenza educativa che tocca soprattutto, ma non solo, i giovani maschi avrebbe bisogno di approfondimenti più accurati e più approfonditi di quelli che abbiamo potuto presentare in questo contesto. Per chi desidera approfondire ricordiamo alcuni libri, risultati preziosi anche per la nostra sintesi. A cominciare dalla già citata Monica Lanfranco che di testi sul tema ne ha scritti tanti. Una buona sintesi del suo lungo impegno è Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo (Erickson 2019). Sempre valido poi uno dei testi classici di Alberto Pellai (con il contributo del professor Marco Gui), Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet (De Agostini, 2021). Sull’amore tossico che diventa violenza utilissimo il libro di Tonino Cantelmi, Emiliano Lambiase, Michela Pensavalli, Schiavi d’amore. Riconoscere e comprendere la propria dipendenza affettiva per poterne uscire (San Paolo, 2021). Un efficace percorso di educazione all’affettività è quello proposto da Maria Pia Colella, Educare ai sentimenti e alla sessualità. Accompagnare la crescita nel cuore dei nostri figli (San Paolo, 2021). Sull’importanza di avviare a scuola percorsi di educazione all’affettività c’è il testo di Alessandro Ricci È l’ora di educazione sessuale (San Paolo 2025). Tra i testi più innovativi e originali che abbiamo consultato quello di Domenico Bellantoni, Identità fluide in una società liquida. Educazione affettiva e di genere nel contesto contemporaneo (Città Nuova 2025). Infine, sempre interessante anche se con alcune analisi ormai datate, il saggio di Shere Hite, I nuovi maschi. Come vivono, come cambiano (Mondadori 2004) che dimostra comunque come già oltre vent’anni fa negli Stati Uniti il problema fosse all’ordine del giorno in tutta la sua drammaticità.
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