Educare prima di punire: «Vi spiego cosa serve coi 12enni violenti»

Il presidente dell’Associazione dei magistrati minorili Cottatellucci: «Vanno indagate le responsabilità delle famiglie e in casi estremi prevedere l’allontanamento»
September 16, 2025
Educare prima di punire: «Vi spiego cosa serve coi 12enni violenti»
. | Un gruppo di minori violenti
«Anche se i bambini sono molto piccoli il giudice minorile può e deve intervenire. La legge dice che sono imputabili solo i minori al di sopra dei 14 anni. Ed è vero, ma parliamo di codice penale. Dal punto di vista civile invece abbiamo altri strumenti e dobbiamo applicarli». Il giudice Claudio Cottatellucci, presidente Aimmf (Associazione italiana magistrati minori e famiglia) ritiene che dopo episodi come quello capitato l’altro ieri a Roma e nei mesi scorsi a Milano, ci sia sempre e comunque il dovere di verificare i fatti, di prendere una decisione modellata sulla specificità dell’episodio e sulle circostanze che l’hanno provocato. Prima di invocare l’imputabilità anche per i 12enni, oppure altre misure restrittive inutili e dannose, bisogna capire e valutare con attenzione.
Quali sono gli strumenti che il codice civile mette a disposizione del giudice minorile per intervenire quando ci sono di mezzo bambini al di sotto dei 14 anni?
Se non si possono applicare le misure cautelari, sempre che siano necessarie, possiamo indagare se ci sono state responsabilità nella vigilanza da parte dei genitori, carenze di controllo e di educazione. Di fronte a episodi particolarmente gravi, con un elevato grado di pericolosità sociale, abbiamo il rimedio estremo dell’allontanamento del minore dal suo nucleo familiare e il collocamento in una struttura protetta residenziale. Naturalmente non sono mai decisioni che si prendono in modo sbrigativo. Ogni storia è unica e va conosciuta in tutta la sua complessità.
Episodi come quello di Milano, ma anche quello dell’altro ieri a Roma, non sembrano lasciare spazio al dubbio. Se i ragazzini non si rendono conto della gravità di quanto stanno facendo, i genitori hanno il dovere di vigilare e di intervenire. Quando non lo fanno, andrebbero considerati responsabili. Troppo semplice?
Chiariamo bene. Il fatto che un bambino di 10 o di 12 anni non abbia piena consapevolezza di quello che sta facendo, non significa che esista un’area di non imputabilità e di non responsabilità generalizzata. Ogni minore ha un “custode” della sua educazione e della crescita – un genitore nella maggior parte dei casi, o comunque un tutore – che va chiamato in causa di fronte a situazioni di particolare gravità. Ed è quello che fa il giudice minorile, in una logica che è sempre riparativa.
Dal racconto delle cronache sembra che questi episodi siano in aumento. È così?
L’analisi delle statistiche appare incerta. Ma se non è in aumento il numero assoluto di reati commessi da minori al di sotto dei 14 anni, sono certamente aumentati gli episodi che segnalano una gravità gratuita delle condotte. Mi spiego meglio: una cosa è ricorrere alla violenza per sottrarre il cellulare al mio coetaneo. Un’altra cosa è sottrarre il cellulare e poi abbandonarsi comunque alla violenza, anche quando non serve più allo scopo.
Violenti sempre e comunque, come il comportamento di alcune baby gang. Perché succede?
Perché la violenza per questi ragazzini difficili ha assunto un significato simbolico che va oltre il fatto in sé. Non puntano solo a entrare in possesso di un cellulare di nuovo modello ma a stabilire chi comanda. Rapinano e picchiano perché vogliono affermare la loro fragile identità. Agiscono quasi impunemente perché è saltato il controllo dei loro adulti di riferimento. Ecco perché va orientata diversamente la risposta dell’azione pubblica.
Si tratta di interventi che, come lei diceva, presuppongono sempre l’ammissione di responsabilità da parte dei genitori. E quindi qualche forma di collaborazione. Ma quando questo non avviene? Quando, come troppo spesso si verifica, abbiamo tentativi di minimizzare o addirittura di negare i fatti?
In ogni caso la giustizia minorile non è solo punitiva. Anzi, è soprattutto, e direi prevalentemente, educativa e riparativa. Ed è per questo che non può fare a meno della famiglia, della scuola, delle associazioni, del territorio. Sarebbe assurdo pensare a una pena detentiva per un ragazzino che non è consapevole di quello che ha fatto. La pena detentiva presuppone un soggetto maturo e razionale. La giustizia riparativa invece mette in relazione la pochezza e la superficialità delle motivazioni di chi agisce con la profondità delle ferite della vittima. Solo se il ragazzo vede quelle ferite, la pena diventa comprensibile e abbiamo innescato un’azione educativa e una maturazione personale che con altre modalità sarebbe risultata impossibile.
Un compito che, quando si arriva all’allontanamento dalla famiglia d’origine e alla sospensione della responsabilità genitoriale, tocca agli educatori delle strutture protette e delle case-famiglie. Ma chi verifica che quel progetto educativo venga realmente realizzato?
Sulla carta le modalità di verifica ci sono. Quando la responsabilità genitoriale, per situazioni particolarmente gravi, viene sospesa o addirittura revocata, il giudice nomina un tutore. La riforma Cartabia prevede anche il curatore speciale del minore. Sono loro che hanno il compito di valutare la coerenza dell’intervento e la competenza degli educatori. E poi ci sono le Regioni, che devono far fronte alla spesa e quindi hanno tutto l’interesse a verificare l’operato delle strutture.
Forse troppi livelli di controllo, con l’intervento di istituzioni che – come avviene per Tribunali, Regioni, servizi sociali – agiscono su piani diversi e con riferimenti diversi. Il rischio che la macchina si inceppi è elevato. Non sarebbe il caso di semplificare?
Sì, il sistema è complesso. Ma è complesso anche intervenire per dare a un ragazzo difficile una possibilità di salvezza. Non si tratta solo di giustizia minorile ma di modelli culturali da ridiscutere. A noi tocca verificare. E se i sistemi di controllo talvolta non funzionano, chiediamoci quante risorse abbiamo messo in campo in questi ultimi, quali investimenti abbiamo fatto, con quali forze dobbiamo fronteggiare emergenze nuove.
La riforma Cartabia avrebbe dovuto essere a costo zero e il governo è stato costretto a bloccare tutto.
Appunto. Così non abbiamo possibilità di verificare la qualità degli educatori nelle strutture, il problema di fondo è innescare una trasfornazione nella vita di questi ragazzi. Tutti i soggetti coinvolti devono essere allenati a ragionare insieme, è un problema di cultura: la giurisprudenza minorile non è fine a se stessa e non può fare da sola, dev’essere inserita in un complesso di competenze e di risorse.

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