Ecco il centro per rieducare le donne criminali. La violenza non ha genere
di Luciano Moia
La psicoterapeuta Antonella Baiocchi interviene sul caso dell’uomo ucciso e fatto a pezzi dalla madre e dalla compagna: basta stereotipi tossici, non sempre sono i maschi a prevaricare

Nell’agghiacciante notizia di Gemona del Friuli, dove un uomo di 35 anni, padre di una bambina di sei mesi, è stato ucciso e fatto a pezzi dalla madre e dalla compagna, c’è un aspetto che non è ancora stato indagato. Una verità scomoda e quasi imbarazzate perché va controcorrente rispetto alla narrazione dominante che vuole le donne sempre vittime e gli uomini sempre carnefici. Invece non è così. Quando si parla di violenza di genere dobbiamo ammettere che oggetto di violenza possono essere entrambi i generi. E, soprattutto, che esistono anche donne violente. Da comprendere, certamente, aiutare ed accompagnare, esattamente come si fa con gli uomini prevaricatori, in un percorso di riabilitazione e di riscatto personale. I numeri sono certamente diversi, le conseguenze devastanti esercitate da maschilismo e patriarcato nelle dinamiche di coppia e nella società sono indubitabili. Ma riconoscere e combattere l’ingiustizia del femminicidio non significa negare che ci sia un altro grave problema relazionale, speculare e altrettanto allarmante. Ne parliamo con Antonella Baiocchi, psicoterapeuta ed esperta in criminologia, scrittrice, direttrice del Cudav (Centro Uomini e Donne Autori di Violenza, il primo ed unico in Italia che rieduca anche le donne violente). È anche autrice dei libri La violenza non ha sesso (Alpes Editori, 2019) e Abusi sui Minori: le devastanti conseguenze dell’Analfabetismo Psicologico e del mancato riconoscimento della Bidirezionalità della violenza” (Alpes Editori, 2025)
Come mai il fatto che le donne possono essere carnefici tanto quanto gli uomini e gli uomini vittime, tanto quanto le donne, viene sistematicamente ignorato da una certa visione mediatica e culturale, ma anche politica, che dipinge la violenza come un problema unidirezionale?
Questo caso, per la brutalità del gesto e il coinvolgimento di due donne, rende ancora più evidente l’urgenza di abbandonare gli stereotipi tossici che alimentano l’ingiustizia e l’impunità. Da tempo promuoviamo una visione inclusiva della violenza, che riconosce il problema domestico-relazionale non come questione di genere, ma come prodotto di una cultura tossica. Finché questa prospettiva verrà ignorata, continueremo a subirne le gravose conseguenze.
Sui femminicidi abbiamo, giustamente, un monitoraggio costante, con dati precisi e aggiornati, e per quanto riguarda i “maschicidi”?
Gli uomini vittime di violenza sono ignorati anche dalle statistiche. Non è un’esagerazione affermare che gli uomini maltrattati sono invisibili: nessun dato ufficiale, mentre i finanziamenti statali riservati solo alle donne. I centri antiviolenza li rifiutano. Intanto, lo Stato approva leggi discriminatorie come il Ddl 577 bis, che sancisce implicitamente: "La vita di un uomo vale meno".
Come mai avete deciso di fondare un centro per dare anche alle donne violente la possibilità di riabilitarsi?
Oggi i centri contro la violenza di genere (Cuav, Centri Uomini Autori di Violenza) accolgono solo uomini ed escludono le donne, come se fossero incapaci di maltrattamento. Per questo l’Associazione A.Pro.S.I.R. di San Benedetto del Tronto ha fondato nel gennaio 2024 il primo centro italiano che riabilita autori di violenza senza distinzioni di genere, comprese naturalmente le donne denunciate per maltrattamenti e violenza (C.Ri.Pe.M. www.helpdonneuominilgbtviolenti.it) che alla luce dei provvedimenti ministeriali del gennaio 2025 è stato recentemente denominato Cudav (Centro Uomini Donne Autrici di Violenza) a rimarcare l’anticostituzionalità dei Cuav. Siamo determinati a far comprendere che il problema della violenza non nasce da differenze di genere, ma dalla mancanza di strumenti per gestire i conflitti.

Parlare di maschi vittime di violenze non rischia di oscurare il problema ben più diffuso dei femminicidi?
Assolutamente no, nessuno nega la violenza che noi donne, subiamo da secoli prevalentemente per mano degli uomini, ma la retorica del "femminicidio come emergenza unica" è assolutamente fuori luogo e comporta conseguenze devastanti, tra cui: discrimina gli uomini vittime, negando loro tutela e protezione; assolve le donne violente, perpetuando l’impunità; condanna i minori a crescere in un circuito di abusi rendendoli “orfani di genitore vivo” (oggi generalmente i padri).
Perché allora ci si ostina ad ignorare la bidirezionalità della violenza?
Questo accade perché si ignora che la vera radice da cui genera la violenza è l’analfabetismo psicologico, cioè il fatto che (molto in sintesi) ancora oggi ci si faccia guidare nel delicato ambito delle relazioni, da mappe tossiche che ci portano fuori strada dagli obiettivi d’amore e pace che vorremmo perseguire, esattamente come accade quando, per raggiungere una città, ci affidiamo ad un navigatore satellitare non aggiornato nelle informazioni, che ci fa sbagliare strada e ci espone al pericolo di trovarci su una strada cieca o sul ciglio di un burrone.
Ci spiega come queste mappe tossiche ci espongono alla violenza?
Le sintetizzo i deleteri step verso la violenza, cui ci inducono le mappe tossiche che inquinano la nostra mente:
● inducono a credere di possedere la "verità assoluta" (chi è convinto di conoscere il "modello giusto" discrimina chiunque vi diverga, considerandolo sbagliato o indegno);
● inducono alla gestione dicotomica delle divergenze (se si pensa in bianco/nero, la divergenza diventa una guerra dove uno deve vincere e l’altro soccombere);
● inducono colui che si trova nel ruolo di potere a prevaricare (chi è in posizione dominante, fisica, psicologica, economica, di ruolo, legale, impone la sua verità a chi è più debole/vulnerabile);
● creano vittime di debolicidio (le vittime di violenza sono legate da un medesimo filo rosso: essersi trovati in posizione di vulnerabilità/debolezza a divergere da qualcuno (uomo o donna che sia) il quale, affetto da analfabetismo psicologico, sarà incapace di rispettarlo e gli imporrà la “propria verità” trasformando il dissenso in una condanna, se non otterrà conformazione).
Più che di femminicidio o di maschicidio lei preferisce parlare di “debolicidio”. Come possiamo definirlo?
Ho coniato il termine “debolicidio” per indicare che tutte le vittime di violenza domestica ed affettiva sono legate da un medesimo filo rosso: si sono trovate in posizione di debolezza/vulnerabilità, a divergere con un interlocutore in posizione di potere, affetto da analfabetismo psicologico, in quanto, se un interlocutore è alfabetizzato, pur trovandosi in posizione di poterlo fare, non prevarica ma promuove il reciproco rispetto e la mediazione. Sotto il neologismo “debolicidio” rientrano le diverse categorie di vittime (femminicidio, infanticidio, anzianicidio, uxoricidio, disabilicidio, maschicidio) ognuna delle quali ha diritto di essere tutelata con strategie personalizzate come già si fa per la categoria di noi donne
Proprio perché lei parla di “debolicidio”, è indubbio che per secoli nella posizione di forza e di potere c’è stato l’uomo. La parte debole/vulnerabile era, e in molti casi è ancora, quella femminile. Quindi come spiega il patriarcato?
Giustissimo. Con la teoria del debolicidio appare evidente che nel patriarcato il genere di chi prevarica è un fatto contingente: ciò che conta è l’analfabetismo psicologico di chi si trova in posizione di potere. Per secoli indiscutibilmente in posizione di potere c‘è stato l’uomo che ha prevaricato e agito violenze su chiunque “divergesse” dal modello ritenuto giusto/verità: le donne, certo, ma anche milioni di uomini che intralciavano il suo volere. Il problema non è mai stato il genere ma la mentalità tossica (l’analfabetismo psicologico) di cui sono affetti uomini e donne. Oggi che le donne, rispetto a 100 anni fa, si sono evolute e disincagliate dalla sottomissione, è sotto gli occhi di tutti che quando vengono a trovarsi in posizione di potere (nella coppia, in famiglia, sul lavoro) prevaricano gli interlocutori in posizione di vulnerabilità, come hanno fatto per secoli prevalentemente gli uomini, replicando lo stesso schema discriminatorio che vogliono combattere.
Come se ne esce?
Riconoscendo la bidirezionalità della violenza. Servono Centri antiviolenza per uomini, linee telefoniche dedicate e finanziamenti paritari. E poi si deve educare alle relazioni sane: smettendo di fare la guerra al maschio e capendo che il vero nemico è l’analfabetismo psicologico/emotivo/relazionale delle persone di qualsiasi genere. Serve insegnare la gestione non violenta dei conflitti fin dalla scuola, ai genitori e a chi ci governa. Inoltre, vanno smantellati i pregiudizi: basta con la narrazione "uomo cattivo/donna angelo". I media devono dare spazio a storie come quella di Alessandro, troppo spesso taciute. E infine servono leggi universali, non discriminatorie che sanzionino la violenza senza privilegi di genere. Negare la violenza femminile significa tradire le vittime, tutte. Il nostro è un approccio inclusivo, che riconosce il dolore di ogni persona, senza distinzioni. La violenza non ha sesso, mentre oggi, in Italia, la giustizia sì: e deve tornare ad essere uguale per tutti.
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