mercoledì 1 novembre 2023
L’appartenenza a una comunità, la necessità di interagire con l’ambiente, le differenze cognitivo-digitali contribuiscono alla mutevolezza e al moltiplicarsi del nostro modo di essere e relazionarci
Una, nessuna, centomila identità: perché non possiamo dirci una cosa sola
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A è A. E soprattutto: A non è non A. Chiaro?

Concentriamoci sulla seconda parte della formula, che viene dalla tradizione della filosofia scolastica, perché, dovendo iniziare il primo articolo di una piccola serie sul tema dell’identità, occorre forse partire dalla cosa più semplice, almeno in apparenza. E cioè dal definire il campo, diciamo, in negativo: provare a capire ciò che l’identità non è. Può sembrare un trucco e forse lo è, ma di certo aiuta a sgomberare quello stesso campo da una serie di equivoci che nel mare magnum della comunicazione si ingenerano attorno a termini delicati come questo. Sentiamo ribadire sempre più spesso la necessità di difendere la nostra identità o l’identità di quel popolo; si combatte per l’identità, ci si separa per l’identità, ci si unisce per l’identità, si esalta la propria identità, si odia l’identità di altri. Dietro queste frasi vi sono dei concetti ben precisi di identità. Proviamo a confutarne qualcuno e così a definire che cosa non sia l’identità.

L’identità non è le nostre radici. Le radici, si dice, sono qualcosa di stabile, ineliminabile e impediscono alle persone di integrarsi davvero (ri-radicarsi) in un luogo diverso e in un sistema di relazioni differente da quello in cui sono nate. Dal punto di vista biologico, in realtà, non è così: le radici sono il punto di origine della nostra avventura sul pianeta Terra, ma per poter crescere abbiamo la necessità di interagire con l’ambiente e con altri sistemi: pensiamo a quanti zigoti si formano in uno stesso luogo, ma poi crescono fra reti e interazioni di comunità, generando diversità e differenze, per trasmetterle infine ai propri discendenti. È la base della nostra variabilità ed evoluzione. È identità o diversità? Il territorio (altra parola spesso associata all’identità) in cui si nasce è simile alla nicchia in cui si sviluppa un’entità biologica (l’ambiente), ma è un luogo di inizio, di partenza, non un radicamento definitivo, come spesso viene equivocato, affibbiandolo a posteriori. Tanto è vero che spesso si dice “tornare” alle nostre identità originarie, come se ad un certo punto del nostro cammino dovessimo necessariamente ritrovare la strada di casa, magari seguendo le radici. Perché?

Se proprio non possiamo rinunciare al concetto di radici, almeno facciamolo sulla scia del saggista svizzero Denis de Rougemont che, in una celebre conferenza del 1963, sviluppò un’idea di identità come frutto di relazioni, parlando di radici orizzontali e non verticali, ancorate alla conoscenza e alla cultura, piuttosto che all’appartenenza territoriale. Secondo: l’identità non è unicità. Al contrario, essa delinea una comunanza, un’appartenenza, un insieme del quale si fa parte. È quindi evidente che, almeno in linea teorica, l’identità non possa essere un parametro di divisione e separazione, bensì di unificazione e relazione. Nel momento in cui accettiamo la non unicità dell’identità (parliamo sempre in termini esistenziali e sociali, non di logica matematica), accettiamo il fatto che essa non sia un concetto individuale, ma collettivo, comunitario, relazionale. Certo riguarda ciascuno di noi, ma appunto in relazione agli altri: del resto come potremmo delineare la nostra identità se non potessimo confrontarla con quella di qualcun altro, così come distinguiamo due oggetti grazie ai loro profili?

Gli oggetti però sono statici. E siamo al terzo “non”: l’identità non è statica. L’identità muta, nel tempo, nello spazio e in relazione alle altre identità. Pensiamo a quanto sia dipendente dallo spazio geografico, dall’ambiente e anche dallo spazio che potremmo chiamare “cognitivo-digitale”, cioè quello che si rappresenta nella nostra testa a seguito dei flussi di informazione e degli scambi comunicativi che continuamente intercettiamo nel nostro vivere digitale. Per un padre e un figlio nati rispettivamente negli anni ’60 del Novecento e all’inizio dei Duemila, stesse radici, stesse tradizioni, stesso credo religioso, stesse scuole, stessa squadra del cuore... insomma diremmo quasi identici, ecco, per loro due quanto è diverso il mondo e quindi la loro identità inserita in esso?

La geografia cognitivo-digitale nella testa del figlio è completamente altra rispetto a quella del padre: gli spazi, le relazioni, gli scambi, le informazioni del mondo hanno misure, tempi e proporzioni del tutto differenti. Il web ha trasformato il mondo, così come le guerre, per motivi e con esiti diversi, ma che tragicamente si formulano allo stesso modo: il mondo oggi è più piccolo. Uno lo ha visto rimpicciolirsi, l’altro è nato che già era così, dunque quale identità condivideranno quel padre e quel figlio? Una parte, forse. O una delle tante, se preferiamo. Siamo giunti quindi all’ultimo aspetto da confutare: l’identità non è soltanto una. Ciascuno di noi ne indossa e ne interpreta molte contemporaneamente, riconducendole a unità (almeno per sopravvivere) e allestendo un metodo per farle convivere al proprio interno. La nostra identità, se esiste, è molte identità diverse insieme. “Identità diverse” è un insulto teoretico alla buona filosofia, quanto meno è una colossale contraddizione, ma come scrisse il poeta Walt Whitman: « Mi contraddico? Molto bene, allora, mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini».

1. Continua

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