mercoledì 26 ottobre 2022
Per Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia l’obiettivo fondamentale delle politiche pubbliche è sviluppare istituzioni capaci di far venir fuori la parte migliore di ogni essere umano
Solo le comunità "vere" hanno buon gioco con i beni comuni
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Nello schema generale, inaugurato sul finire degli anni ’60 del secolo scorso da Garrett Hardin, i beni comuni gestiti in maniera decentralizzata, né dallo Stato né dai privati, ma dalle comunità, sono invariabilmente condannati ad un esito tragico – 'The Tragedy the Commons' è il titolo del suo saggio più famoso. In questo schema ogni individuo si trova intrappolato in un sistema di incentivi che lo induce ad aumentare il livello di sfruttamento del bene che tenderà, dunque, ad essere sovrasfruttato e, infine, distrutto. «La rovina è la destinazione verso la quale ogni individuo corre, se mosso esclusivamente dal suo interesse personale». Queste parole di Hardin evocano un processo in accelerazione. Infatti, con il passare del tempo e con un costante sovrasfruttamento della risorsa, il bene si deteriorerà e la risorsa comune diverrà sempre più scarsa, e proprio per questo sempre più preziosa e necessaria. Si raggiungerà un punto, una 'soglia critica' oltre la quale, paradossalmente, invece di limitare lo sfruttamento del bene ormai a rischio, per l’eccessivo uso, gli individui saranno indotti ad aumentare ulteriormente il livello del suo sfruttamento, accelerando, in questo, modo, il processo 'tragico' di annientamento della risorsa comune. Questa conclusione induce Hardin a un pessimismo terribile – «la libertà nell’ambito delle proprietà comuni porta tutti alla rovina».

Questa conclusione che viene estesa, con diverse qualificazioni, ad ogni bene comune, materiale e immateriale, locale e globale, non venne accettata da Elinor Ostrom, premio Nobel per l’Economia, prima donna nella storia del premio, che ha passato la sua vita di ricercatrice a individuare, catalogare, analizzare e generalizzare casi concreti di gestione collettiva dei beni comuni. Molti di questi esempi sovvertono, nei fatti, la tragica conclusione di Hardin. Quando la Ostrom inizia le sue ricerche, il framework teorico allora in auge rappresentava un 'mondo semplice', caratterizzato da due forme istituzionali, Stato e mercato, due tipi di beni, privati e pubblici, e un modello di agente, l’homo economicus, perfettamente razionale, individua-lista e autointeressato. La Ostrom supera il modello per intraprendere un viaggio nella realtà. Si dedica allo studio dei casi concreti, a prima vista i più disparati, nei quali le comunità cercano di risolvere i problemi della gestione dei beni comuni. Accumula in questo modo un enorme repertorio di spiegazioni, pratiche e forme istituzionali attraverso cui, nel concreto, in ciascun ambiente specifico, gli aspetti tecnici del problema sono stati superati e risolti. Ne emerge un quadro complesso dal quale si evince quanto i casi singoli siano enormemente più variegati di quanto non si capisca da certi modelli ipersemplificati. Dai pascoli comuni dei villaggi svizzeri, alle foreste giapponesi, dagli impianti di irrigazione in Sudamerica, ai sistemi di drenaggio in Spagna. Molte di queste istituzioni sono sopravvissute intatte per centinaia di anni, e ancora moll to, oggi, hanno da dire a chiunque si occupi di beni comuni. A questo metodo 'fenomenologico' la Ostrom affiancherà esperimenti controllati di laboratorio attraverso i quali vuole testare le previsioni di nuove teorie. Dall’incrocio dei dati 'narrativi' ottenuti dalle analisi sul campo con quelli sperimentali che emergono dalle prove di laboratorio, si iniziano a isolare alcuni di quegli elementi che maggiormente rappresentano un ostacolo alla gestione collettiva dei commons. Una particolare rilevanza assume, per esempio, la distanza sociale tra i membri della comunità e un basso grado di conoscenza personale, l’assenza di comunicazione diretta e l’anonimato. Quando questi fattori si ritrovano al massimo grado, allora diventa estremamente difficile che le comunità riescano a far emergere regole cooperative. Al contrario, in tutte quelle situazioni nelle quali la comunicazione è attiva e la comunità è coesa il livello di cooperazione aumenta considerevolmente. Spesso, quindi, alla base della difficoltà a cooperare, non si pone tanto la natura egoistica degli individui quanto la qualità anonima del loro stare insieme.

Le comunità vere hanno successo, i gruppi indistinti molto meno. Alla fine della sua avventura intellettuale Elinor Ostrom traccia questo bilancio: «La lezione più importante che posso trarre [dal mio viaggio intellettuale] è che gli esseri umani hanno una struttura di motivazioni complessa e una maggiore capacità di risolvere dilemmi sociali di quanto sostenga la teoria della scelta razionale (…) Progettare istituzioni capaci di forzare o indirizzare individui puramente autointeressati verso l’ottenimento di esiti ottimali è stata la preoccupazione principale degli analisti politici e dei governi per gran parte del secolo scorso. Le mie ricerche – continua – mi hanno portato a pensare, invece, che l’obiettivo fondamentale delle politiche pubbliche debba essere quello di sviluppare istituzioni capaci di far venir fuori la parte migliore di ogni essere umano». Questa ultima frase mette in luce due punti particolarmente importanti per la nostra riflessione: da una parte la logica dell’approccio tradizionale fondato sull’assunzione di comportamento autointeressato, che conduce all’inefficacia quelle politiche di controllo volte a «forzare o indirizzare individui puramente autointeressati verso l’ottenimento di esiti ottimali», e dall’altra, le conseguenze rivoluzionarie legate all’accoglimento di una visione antropologica più complessa, per la quale gli agenti economici non sono solo autointeressati, ma possiedono motivazioni complesse e plurali che, in definitiva, li rendono più capaci di risolvere dilemmi sociali di quanto sostenga la teoria tradizionale. Questa seconda visione deve però essere affiancata e completata dalla progettazione di istituzioni 'capacitanti', finalizzate a promuovere e far sviluppare le naturali tendenze alla cooperazione e alla pro-socialità insite, più o meno profondamente, in ciascuno di noi.

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