mercoledì 1 febbraio 2023
Gli "Open day" hanno sostituito il vecchio passaparola. Famiglie e studenti bombardati da promesse di successo "facile", mentre numeri chiusi e test di ingresso creano recinti e disuguaglianze
Se la scuola si fa marketing

CC Caterina Holmes via Pexels

COMMENTA E CONDIVIDI

C’è una pubblicità che non vediamo in tv, sui giornali o sui manifesti delle nostre città. C’è una pubblicità che non sentiamo alla radio e non viene sponsorizzata dentro i social, ma utilizza il dispositivo più antico del mondo: il buon vecchio passaparola e in alcuni casi qualche improvvisata locandina sul posto, per comunicare alle famiglie che da lì a qualche giorno la scuola reclamizzata sfoggerà tutto il suo arsenale di marketing durante i famigerati “Open Day”. Una volta si chiamavano incontri di orientamento, venivano svolti all’interno delle nostre università e consentivano a chi era prossimo agli esami di maturità di valutare l’indirizzo di studi all’interno del quale avrebbe potuto proseguire il suo percorso scolastico. Era prima che i ministeri dell’Istruzione si prodigassero in virtuosismi semantici e che la nostra istituzione più importante si ritrovasse impegnata all’interno di una competizione sempre più agguerrita tra istituti, in cui la variabile che consente di scalare le ambitissime classifiche date in pasto alle agenzie di stampa è quella della performance. Se prestate attenzione alle réclame delle università non vi sarà sfuggito il registro che promette alle nuove matricole di poter essere «leader» o «protagonisti del domani» o ancora, «con il futuro da cogliere» e tutta una serie di altre promesse che ammiccano ambiziosamente a un ipotetico futuribile successo, in barba alla percentuale di laureati e laureate più bassa d’Europa nel nostro Paese e al tristissimo primato europeo che vede l’Italia superare la soglia del 40% di «Neet». In buona sostanza, si promette il futuro a chi un futuro non lo cerca neanche e non certo per colpa sua.

Ma quando è accaduto che il mondo della scuola ha lasciato che quello del lavoro irrorasse con così tanta superbia la sacralità delle nostre aule? Per quale motivo una classe di giovani sapiens deve rinunciare a costruire cittadinanza sulle basi della conoscenza, per diventare culla di spin doctor, startupper e manager lillipuziani che ancora litigano con l’acne? C’è il numero chiuso, alla faccia del diritto allo studio, ci sono scuole medie in over-booking e licei con i test all’ingresso, così le scuole migliori disegnano recinti inappellabili per proteggere il primato claustrofobico della propria classifica, incuranti delle graduatorie europee che vedono le nostre generazioni più giovani scivolare nelle retrovie. E a proposito di futuro, diventa difficile scommettere sulla ripartenza di un Paese che non riesce più valorizzare la propria scuola come luogo di crescita sociale, attento alle esigenze individuali e non solo alla classe dirigente. Non c’è bisogno di scomodare don Milani o la Montessori per capire che stiamo semplicemente anticipando sempre più il tempo della disuguaglianza, nel luogo che dovrebbe essere consacrato all’inclusione più spericolata e che preferisce il primo posto in classifica a un posto in classe per chiunque.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: