mercoledì 17 novembre 2021
Dalla litoranea in Libia alla cittadinanza per gli italo-eritrei, le questioni del passato rimaste in sospeso
Restituzione generativa: strada ancora da percorrere per l'Italia coloniale
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Per alcuni decenni l’Italia è stata una potenza coloniale. Limitandoci alla storia delle relazioni italo-africane, partiamo dall’occupazione dei porti eritrei di Assab e Massaua negli anni Ottanta del XIX secolo e dalla Guerra di Libia (19111912). Tra 1881 e 1914 alcuni stati europei si spartirono l’Africa con squadra e righello, tracciando quei confini così geometrici da sembrare irreali, ancora oggi caratterizzanti gran parte del Continente. All’Italia toccarono Eritrea, Somalia, Cirenaica e Tripolitania. Il fascismo portò all’unione di queste due ultime regioni nella cosiddetta Libia italiana e all’occupazione dell’Etiopia, con la conseguente costituzione dell’Africa orientale, anch’essa italiana (ne facevano parte pure Eritrea e Somalia). Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’Italia perdette tutti i domini d’oltremare, tranne la Somalia, che fino al 1960 (anno dell’indipendenza somala) rimase un territorio assegnatole sì, ma sotto l’amministrazione fiduciaria dell’ONU. Di questa storia nel nostro Paese per parecchio tempo si è parlato molto poco. La si è tralasciata nei programmi di scuola e ci si è spesso trincerati dietro la nota e poco veritiera espressone 'Italiani brava gente', smontata prima di tutto dagli studi di Angelo Del Boca. Oggi le cose sono cambiate, ma come spiega Valeria Deplano, ricercatrice all’Università di Cagliari, il riferimento va troppo spesso agli eventi eclatanti (l’uso dei gas in Etiopia primo fra tutti) e molto poco alla cultura che ha consentito sia questi eventi eclatanti, sia i decenni di silenzio sul colonialismo italiano. A Valeria Deplano chiediamo se fare i conti con il proprio passato abbia portato la Repubblica nata nel 1946 a ideare dei progetti di restituzione generativa, simili a quelli dei quali abbiamo scritto su queste pagine ( Economia Civile 9, 30 giugno 2021) a proposito dello schiavismo negli Stati Uniti. La risposta è negativa e circostanziata.

Nello scorso aprile il presidente del consiglio Mario Draghi visitava la Libia come meta del suo primo viaggio ufficiale in terra straniera. Uno dei temi del dialogo con il neopremier Abdul Hamid Dbeibah era lo sblocco dei lavori per la cosiddetta Litoranea, lanciati nel 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi. Si tratta di un’autostrada che avrebbe dovuto attraversare la Libia per 1.750 chilometri, a collegare Cirenaica e Tripolitania (dai confini con l’Egitto a quelli con la Tunisia), una 'grande opera' capace di dare impulso anche a nuovi investimenti italiani. Ancora non se ne è fatto niente, e i motivi sono ovvi, vista la disastrosa situazione libica dell’ultimo decennio. All’epoca dell’accordo Berlusconi/ Gheddafi non mancò chi, a partire dal capo del nostro governo, salutò l’appoggio italiano al progetto come (anche) un risarcimento per i danni coloniali. Si tratta di una lettura troppo semplicistica, ci chiarisce Valeria Deplano: nel quadro degli accordi italo-libici manca la pietra angolare di una vera restituzione generativa. Nei patti è sì compresa la riconsegna di manufatti sottratti dalla potenza occupante e di documenti relativi agli anni coloniali, ma non esiste una regia che metta sul piano di lavoro la riflessione su cosa sia stato e abbia significato quel passato, su quali siano oggi le sue conseguenze. Deplano propone di ragionare su due esempi. L’unità tra Tripolitania e Cirenaica è un’invenzione coloniale italiana, un espediente politico e insieme retorico che narra di uno stato-nazione mai esistito, benché Gheddafi abbia investito molto nel tentativo di crearlo davvero. Che questa unione forzata abbia generato spaccature non può sorprendere le storiche e gli storici, perché la Libia è una costruzione nella quale convivono identità composite. Con i dovuti paragoni, dopo la fine del regime-Gheddafi è successo quello che accadde nella Jugoslavia tira fine anni Ottanta e inizio Novanta: nel momento della fine del potere forte centralizzato, i nodi sono venuti al pettine. La regia legge italiana sulla cittadinanza è rimasta in vigore dal 1912 al 1992, nonostante molti singoli casi di ex-sudditi coloniali spingessero a ridiscuterla. La nuova norma non ha messo in discussione il principio dello ius sanguinis e non ha scalfito la ancora attuale concezione limitata di italianità. Ha mostrato uno spiraglio per gli italo-eritrei, inserendo la possibilità di ottenere la doppia cittadinanza per chi, a causa delle leggi fasciste, non aveva visto riconosciuta la propria ascendenza italiana. Uno spiraglio mai davvero aperto. Lo ha recentemente ricordato un appello presentato da più di trecento eritrei con antenati italiani al presidente Sergio Mattarella. La loro richiesta è che si risolva una questione mai veramente affrontata, quella della cittadinanza negata, definita dagli appellanti «un crimine di razzismo coloniale». Una grande percentuale dei migranti che si mettono in viaggio verso l’Italia è costituita da eritree ed eritrei: la destinazione della loro fuga è scritta anche in un passato che non siamo capaci di riconoscere. Ci rimane da evidenziare come la capacità generativa della storia rispetto alle buone pratiche, pure economiche, non debba prescindere dalla ricerca da un lato, da come e quanto storiche e storici possano e sappiano comunicare i risultati delle proprie indagini dall’altro. Rappresentare la costruzione di una strada o di un ospedale come esempio di risarcimento per i peccati del colonialismo non rende un buon servizio alla consapevole conoscenza del nostro passato.

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