mercoledì 20 ottobre 2021
Paolo Perulli, sociologo dell'economia, prova a immaginare il mondo nel 2050 e come potremmo correggere gli errori degli ultimi 30 anni di globalizzazioni
Lavoro e cooperazione per le catene del valore locale
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Quale configurazione assumerà la realtà tra trent’anni sotto la pressione dei processi di trasformazione in atto? Non sono molti i tentativi di risposta alla domanda. Uno dei pochi che, facendo aggio su evidenze e non fantasie, tenta di intravedere la rotta è Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo di Paolo Perulli, sociologo dell’economia, già docente alle università del Piemonte Orientale, Venezia, Parigi, Cambridge e altri atenei.

Nelle prime righe del libro, professore, scrive che oggi l’ordine del mondo si è interrotto. È evidente che in questo momento si sia infranto. Penso naturalmente all’ordine sorto nel Dopoguerra. E, soprattutto, in questo momento non c’è un altro ordine che ne prenda il posto. In un dialogo epistolare avvenuto nella seconda metà del Novecento con Alexandre Kojève, Carl Schmitt, sostiene che manchiamo di una geonomia, cioè di un nomos della terra. La conseguenza di questa mancanza è il disordine oggi sotto gli occhi. Da cosa è causato? Sempre per utilizzare il lessico caro a Schmitt, possiamo dire che l’ordine scaturisce da una coppia di elementi, l’ordinamento e la localizzazione. Oggi, in seguito ai processi di globalizzazione, il rapporto tra i due si è dissolto generando una separazione tra l’ordinamento e la localizzazione.

Quali sono gli attori sociali che abitano il disordine attuale? L’élite, la neoplebe e la classe creativa. Con élite penso allo strato sociale economico-politico che guida le dinamiche in atto. Essa soffre di irresponsabilità. Nel senso letterale dei termine, perché non risponde alle grandi questioni del tempo e anzi le approfondisce invece di risolverle. Penso alla questione del cambiamento climatico. La neoplebe, invece, non è una classe sociale, è una galassia di strati, all’interno della quale figura anche il vecchio ceto medio che sta scomparendo. La neoplebe soffre di un rischio di secessione perché si vede esclusa dal gioco democratico. Da un lato non si sente rappresentata nei luoghi decisivi e dall’altro ha un problema di rappresentazione, fatica a vedersi e a vedere. Questi due aspetti diffondono tra le sue fila rassegnazione e rancore, nel senso nicciano del termine.

E l’ultimo dei tre protagonisti? La classe creativa è la sola a generare innovazione e valore, ma non ha potere e non ha la capacità di guidare la società fuori dalle secche. Essa deve diventare la classe generale, ma per farlo deve uscire in campo aperto e assumersi le proprie responsabilità abbandonando la comfort zone in cui si crogiola.

Come può realizzare questo passaggio? Deve anzitutto capire che ci sono dei diritti di proprietà della conoscenza. In questo momento essa non ha diritti di proprietà sulle proprie produzioni ma dovrebbe invece rivendicarli anche se l’élite non glielo lascerà fare impunemente. Oggi si è spesso incapaci di cogliere il problema. Il pensiero progressista, per esempio, non riesce a farlo perché ritiene la globalizzazione del passato positiva. Di conseguenza non riesce a rappresentarsi le classi sociali della società contemporanea. Parla ancora di classe operaia o di ceto medio ma non esistono più.

La classe creativa è disimpegnata… Non è vero che sia distratta, è per esempio interessata al locale. Le figure professionali creative sono molto legate alla città, al quartiere, alla scuola dei propri figli. Lo dimostrano alcune indagini realizzate a Madrid, Parigi, Milano.

Ma l’interesse per il locale è qualcosa di estemporaneo o avrà ricadute nel futuro? Con il consolidarsi dei processi di automazione si assiste al passaggio da catene del valore globale a catene del valore regionali e locali. L’industria 4.0 abbatte il costo del lavoro per cui non è più competitivo produrre altrove. Se pensiamo all’industria manifatturiera e guardiamo all’Emilia Romagna vediamo ormai che il 40% dei fornitori di imprese leader mondiali nella propria filiera produttiva è regionale. Un altro 40% dei fornitori proviene dal territorio nazionale e solo il 20% da territori extranazionali, di cui una grossa parte dalla Germania.

Il passaggio a catene del valore locali non è una profezia… Il sistema produttivo tedesco è già fortemente integrato con con quello delle regioni del nord Italia. Per cui esiste già una catena del valore continentale. Ma non dobbiamo comunque confonderci. Non si tratta di una riproposizione della vecchia autarchia ma di processi nuovi che uniscono il locale con il globale, parliamo quindi di glocale.

Il glocale può generare nuove forme politiche? È da provare ma indubbiamente si sta procedendo verso espressioni di statualità postnazionali, vale a dire di forme politiche che vanno oltre gli ancoraggi della nazione e fanno riferimento, per riprendere ancora Schmitt, a Grandi spazi. I recenti accordi tra Francia e Italia sembrano rispolverare il sogno di Kojève di un impero latino. Anche se oggi, forse, il filosofo e grand commis d’État avrebbe preferito parlare di Europa allargata.

Secondo lei questo processo di localizzazione fa emergere l’importanza del lavoro cooperativo? Oggi il lavoro si trova in un momento delicato, stretto tra i processi di automazione e robotizzazione che ne rende il suo futuro imprevedibile. Oggi in merito prevale una tendenza al de-skilling che provoca una sua dequalificazione. È il modello proposto da Amazon ma non è detto che questo sia il futuro perché il processo è ancora in atto e la soluzione aperta. Occorre anzitutto proporre un re-skilling in cui si configurano nuove competenze. Se il lavoro cooperativo dovesse così prendere piede si assisterebbe a una espansione del lavoro creativo in opposizione al modello proposto dai social network basati su una estrema individualizzazione sorretta dal triangolo, che andrebbe spezzato, formato da piattaforme, utenti e provider pagati con i contatti.

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