mercoledì 23 febbraio 2022
Il rapido sviluppo dell’industria del ferro ha reso inabitabili i luoghi in cui viveva questa comunità amazzone Ora ha un quartiere nuovo, lontano dalle ciminiere, costruito a spese delle aziende
Una delle grandi imprese siderurgiche in Amazzonia

Una delle grandi imprese siderurgiche in Amazzonia

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«Aluta é nossa, a luta é do povo, é com justiça que se faz um barrio novo (la lotta è nostra, la lotta è del popolo, è con giustizia che si fa un quartiere nuovo)». Tida intona il canto con voce squillante. Le braccia e le mani ondeggiano nel cielo saturo d’umidità amazzonica, gli occhi, lucidi, trattengono le lacrime. Ne ha versate troppe il “popolo di Piquiá de Baixo” in questi oltre trent’anni di prossimità forzata con le fabbriche siderurgiche e battaglia nonviolenta per il diritto alla vita. Propria, dei propri figli e della propria terra. Ora è il momento della festa. Una cerimonia semplice, improvvisata, per celebrare la fine della costruzione della casa numero 312, l’ultima del nuovo quartiere. “Piquiá da conquista” hanno scelto di chiamarlo. Perché è stato un lungo e faticoso processo di conquista da parte della comunità a dare un luogo all’utopia. Un ampio sterrato su cui si ergono strutture semplici e regolari di cemento, inframmezzate da spazi già predisposti per i giardini, le attività ricreative, le assemblee. Entro la fine dell’anno ci sarà il “trasferimento”. «E dire quando ci è venuta in mente sembrava un’idea irrealizzabile. Ricordo bene il momento: era il 2008. Edvar, il mio vicino, dopo aver cercato invano di avere una risposta dalle aziende, ha chiesto aiuto al Centro per i diritti umani, una piccola associazione locale, e ai missionari comboniani. Uno di loro, padre Dario Bossi, ci ha convocati tutti in chiesa. Abbiamo discusso due opzioni. La prima – costringere le siderurgiche ad andar via – si stava rivelando impraticabile. Abbiamo, allora, scelto di spostarci noi. A patto, però, che fosse riconosciuta formalmente la responsabilità delle aziende e queste contribuissero alle spese. Pochi ci credevano. Quando mai i poveri vincono quando affrontano i ricchi? Per darci forza, padre Dario ci ha detto: “Siete poveri ma non soli. La vostra lotta è la nostra lotta, la lotta di tutti”. Così è nata la canzone», racconta Tida, l’unica donna nel gruppo dei sette pionieri che ha dato vita al processo. Capelli grigi, unghie smaltate e elegante anche quando si reca al cantiere, questa donna è stata tra i primi residenti di Piquiá de Baixo. Quando è arrivata – come gli altri, in cerca di un fazzoletto di terra non occupato dai latifondisti –, negli anni Settanta, la fascia nord-orientale del Brasile non era ancora «l’Amazzonia che non c’è più», come la chiamano ora, poiché la foresta è scomparsa.

Al posto delle siderurgiche, c’erano alberi enormi, un ruscello pulito, campi fertili. Il brusco cambiamento è arrivato con la scoperta del maxigiacimento di Serra do Carajás, a circa 200 chilometri di distanza, nel Pará, di proprietà del colosso minerario Vale, allora impresa pubblica e ora privata. E la scelta della dittatura, negli anni Ottanta, di costruirvi intorno il “circuito del ferro” per «portare sviluppo » nel Nord-Est, attraverso l’estrazione massiccia di risorse naturali da vendere sul mercato internazionale. Così sono arrivate la ferrovia, le fabbriche, lo scalo commerciale. Il treno percorre senza sosta i 900 chilometri tra la cava e il porto di São Luis, da dove viene esportato in tutto il mondo, Italia inclusa. Prima, però, fa una tappa intermedia nel municipio di Açailândia, dove si trova Piquiá e dove le aziende – autonome da Vale ma di fatto alimentate esclusivamente dalle sue forniture – hanno insediato i loro stabilimenti in cui il ferro viene trasformato in ghisa. È la prima lavorazione – il cosiddetto pig iron – quella più sporca e inquinante. Per realizzarla, non casualmente, le imprese hanno scelto uno dei tanti “non luoghi” del Brasile povero, un serbatoio abbondante di manodopera a basso costo, incapace, in genere, di sottrarsi al ricatto tra lavoro e salute. Il “popolo di Piquiá”, però, ha rifiutato il miraggio di un progresso fatto di morte per la terra e per i lavoratori, all’80 per cento impiegati con contratti precari. «La storia dell’America Latina dimostra il fallimento del paradigma estrattivista, basato sullo sfruttamento intensivo delle materie prime per rifornire il Nord del mondo. Queste vengono esportate semigrezze, dunque non c’è interesse a sviluppare in loco un sistema di trasformazione che produca valore aggiunto e impieghi qualificati. L’economia nazionale dipende, così, solo dai prezzi delle risorse e questi salgono o scendono in base alla domanda globale», afferma padre Dario Bossi.

Gli abitanti della baraccopoli a ridosso delle acciaierie ne hanno sperimentato i danni sulla propria pelle. In base a studio del 2007, elaborato da una rete di associazioni indipendenti, oltre la metà aveva disturbi respiratori. Edvar, ad esempio, è morto di tumore ai polmoni prima di vedere l’esito della battaglia. La guida è passata a Tida. «Per quattordici anni abbiamo fatto cause e ricorsi in tribunale, atteso la lentezza della burocrazia, sopportato gli ostacoli che, ogni volta, creavano i potenti. Abbiamo manifestato per ore sotto la pioggia o il sole battente. Ma non ci siamo mai arresi». Dopo un processo estenuante per negoziare la concessione di un nuovo terreno per la comunità, la svolta è arrivata tra il 2014 e il 2015 con il decreto per il ricollocamento emesso dal Municipio e ratificato dal governo federale. L’anno successivo, la comunità ne ha avuto la proprietà. Solo nel 2018, però, i lavori di costruzione sono finalmente cominciati: a finanziarli la Fondazione Vale e le siderurgiche coinvolte – di cui è stata riconosciuta la responsabilità – insieme alle autorità locali. Ora, il quartiere è quasi completo. Il 'popolo di Piquiá de Baixo' ce l’ha fatta. La sua utopia ora ha un luogo.

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