
Addetti al lavoro sull'impianto Turkstream, che porta ancora gas russo in Europa tramite la Turchia - Imagoeconomica
Il prezzo del gas in Italia, ma anche in quasi tutto il resto d’Europa, dall’inizio dell’autunno si è portato su livelli minacciosi per i bilanci delle famiglie e drammatici per le imprese “energivore”, quelle che hanno bisogno di grandi quantità di energia per produrre. Gli sforzi dei governi nazionali e della Commissione europea per diversificare le forniture, così da procedere con una drastica riduzione delle importazioni di gas russo, hanno garantito la disponibilità di gas naturale, ma a un prezzo molto salato: le quotazioni dei contratti Ttf – quelli scambiati ad Amsterdam e usati come riferimento per i prezzi finali del gas in tutta l’Ue – dall’inizio dell’anno si aggirano attorno ai 50 euro per Mwh (addirittura 54 euro oggi all'apertura), cioè più del doppio dei prezzi medi dei tempi precedenti all’invasione dell’Ucraina. L’aumento del costo del gas provoca direttamente una crescita dei prezzi delle bollette dell’elettricità, dal momento che circa il 40% della produzione elettrica italiana arriva da centrali termoelettriche alimentate a gas e il prezzo dell’energia elettrica è determinato per il 70% delle ore dalla generazione di questi impianti.
Dopo che le imprese hanno alzato il livello di allarme – con paginate comprate sui giornali e addirittura un video su Instagram in cui Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, ha mostrato le bollette stellari di una delle sue imprese – la scorsa settimana Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, ha presentato quello che intende fare il governo. Le principali iniziative saranno l’accelerazione dei progetti per nuovi impianti di energia rinnovabile; il “disaccoppiamento” per ridurre l’impatto delle quotazioni del gas sul prezzo finale dell’elettricità; il meccanismo di “energy release” che prevede la vendita anticipata da parte del Gestore dei servizi energetici di elettricità alle imprese energivore a prezzi calmierati. Misure utili che però difficilmente potranno risolvere alla radice il problema dei prezzi elevati dell’energia, che è uno dei principali fattori dietro l’attuale crisi dell’industria europea.
Mercato senza equilibrio
Sul fronte del gas naturale, il primo problema è che l’Europa ne ha pochissimo sul suo territorio: nel 2023, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati, ha consumato 330 miliardi di metri cubi di gas, e di questi 300 miliardi sono stati importati dall’estero. La scelta di tagliare le importazioni dalla Russia è stata costosa: senza l’approvvigionamento massiccio garantito da Gazprom con contratti a lungo termine, l’Ue ha dovuto affidarsi all’acquisto di gas naturale liquefatto (Gnl), spostandosi su un mercato molto più flessibile (il gas che si muove via nave raggiunge con facilità il cliente disposto a pagarlo meglio) ma che ci mette in competizione con il resto del mondo, a partire dalla Cina e dagli altri grandi importatori asiatici.
«I flussi di gas russo erano molto flessibili, e quindi erano un ottimo strumento per bilanciare domanda e offerta di energia elettrica tenendo conto dell’intermittenza delle altre fonti, come le rinnovabili – spiega Marta Bucci, direttore generale di Proxigas, l’associazione della filiera del gas –. Ricorrere al Gnl per il bilanciamento significa avere a che fare con prezzi più variabili, che devono tenere conto di fattori di incertezza diversi: geopolitici, tecnici, di mercato. La volatilità dei prezzi così aumenta significativamente e l’interruzione del flusso di gas dell’Ucraina dal 1° gennaio ha complicato ulteriormente le cose». In questo senso, aggiunge Bucci, l’Europa è stata poco lungimirante negli ultimi anni: «Ha dato per scontato che nel mondo ci sarebbe stato un eccesso di produzione di gas e che avremmo potuto facilmente comprare gas naturale a prezzi competitivi e ridurre i consumi. Invece il trend globale è andato in direzione opposta: il consumo di gas è aumentato in tutto il mondo, da 3mila a 4mila miliardi di metri cubi, anche perché Paesi che fanno ancora ampio uso di carbone lo sostituiscono con il gas per ridurre le emissioni».
Le speculazioni sul Ttf
A complicare la situazione – e qui c’è il secondo problema – ci sono le caratteristiche del mercato del Ttf. Il prezzo di riferimento per il gas in Europa si forma attraverso gli scambi tra operatori su questo mercato che è olandese ma anche “americano”, in quanto controllato dal gruppo Intercontinental Exchange (Ice, quello che controlla anche la Borsa di New York). È un mercato “disfunzionale”, come disse apertamente due anni e mezzo fa, nel pieno della prima crisi del gas, Torbjorn Tornqvist, miliardario svedese primo socio e amministratore delegato di Gunvor, multinazionale svizzero-cipriota tra i maggiori trader di materie prime energetiche: perché è dominato da fondi di investimento che operano sul Ttf con fini puramente speculativi, senza avere la reale necessità di vendere o comprare davvero gas naturale e nemmeno di coprirsi dai rischi che possono venire dalla volatilità dei prezzi. Il mercato è grande e dove c’è opportunità di fare speculazione i grandi fondi ci sono sempre. Avere un mercato “liquido”, per chi opera davvero nella filiera del gas, può essere utile a fare funzionare bene la dinamica tra offerta e domanda, ma quando la maggioranza degli operatori è presente solo per ottenere profitti finanziari diventa difficile individuare quanto il movimento delle quotazioni sia legato a fattori “strutturali” e quanto dipenda invece da mosse puramente speculative che, in definitiva, vanno a gonfiare le nostre bollette.
L’Europa non ha saputo trovare un’alternativa al Ttf, e questo nonostante i Paesi Bassi siano ormai un mercato del tutto secondario per il gas naturale “reale”, che oggi arriva principalmente dal Nordafrica, dal Medioriente e dagli Stati Uniti. «Potrebbe essere utile trovare un’alternativa per la formazione del prezzo, con una soluzione che riconosca anche il ruolo diverso dell’Italia nel quadro generale» conferma Pier Lorenzo Dell’Orco, amministratore delegato di Italgas Reti, che gestisce oltre 60mila chilometri di rete e distribuisce in Italia circa 6 miliardi gas naturale ogni anno. La rete, spiega ancora Dell’Orco, non è il problema: si può naturalmente ancora migliorare l’infrastruttura nazionale, aumentarne ulteriormente l’efficienza attraverso la trasformazione digitale, ma oggi, e con gli investimenti gà previsti, come punti di accesso (sia via gasdotto che via nave), capillarità e capienza la rete italiana è più che adeguata alla necessità del Paese.
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Una nave carica di gas naturale liquefatto - Reuters
Lo scenario dei gas “verdi”
«Quello che occorre fare è investire di più sulle grandi potenzialità dei gas “verdi – avverte però l’amministratore delegato di Italgas Reti –. Penso al biometano e all’idrogeno prodotto con fonti rinnovabili». I gas prodotti dagli scarti dell’attività agricola e degli allevamenti, fanghi di depurazione e colture energetiche hanno grande potenziale, oltre a essere esempi di economia circolare e contribuire alla transizione ecologica. Il biometano, che può essere immesso nella rete del gas naturale, permette una riduzione dell’emissione di gas serra di oltre l’80% rispetto al gas naturale. Oggi l’Italia ne produce circa meno di 600 milioni di metri cubi all’anno e conta di arrivare, anche grazie ai quasi 2 miliardi di euro messi a disposizione dal Pnrr, a produrne 2,3 miliardi di metri cubi entro il 2030. Anche l’idrogeno verde, prodotto da impianti di elettrolisi alimentati da energia solare o eolica, è in piena espansione. La stessa Italgas la prossima estate in Sardegna, nei pressi di Cagliari, avvierà un impianto per la produzione di idrogeno verde che servirà le utenze domestiche, una vicina industria casearia ed una flotta di autobus per il trasporto pubblico locale. Sperimentazioni per un futuro con ampio uso di gas “verdi”. «Le nostre reti attuali – spiega Dell’Orco – sono già adeguate ad accogliere e distribuire una miscela di idrogeno in combinazione con gas naturale in quote superiori al 10%». Senza contare che l’Italia è al centro del progetto del SouthH2 Corridor, il progetto che punta a produrre idrogeno verde in Nord Africa e trasportarlo in Europa.
La tentazione russa
Ma nel breve termine non ci sono soluzioni rapide per fare scendere i prezzi. «Sul lato della domanda e dell’offerta possiamo aspettarci che per il 2026-2027 il mercato si normalizzi con l’aumento della produzione atteso grazie a nuovi progetti negli Stati Uniti e in Qatar – spiega Bucci –. Possiamo anche rilanciare la produzione interna. Quello che si può fare più rapidamente però è ancorare il prezzo del gas, attraverso contratti a lungo termine che limitano la volatilità dei prezzi, qualcosa che l’Europa ha a lungo criticato ma che invece è uno strumento prezioso per evitare di restare in balìa della competizione internazionale». Qualcosa su questo fronte potrebbe muoversi: la nuova Commissione, sempre a guida Von der Leyen, sembra necessariamente più aperta ad ammettere certi errori passati, considerata l’urgenza di evitare il collasso di interi settori industriali. E forse la prima novità potrebbe essere un cambio di direzione rispetto agli acquisti di gas russo tramite l’Ucraina. Bruxelles sta tornando a discutere con Kiev anche la possibilità di trovare un accordo per ripristinare il transito, coinvolgendo nelle discussioni anche Ungheria e Slovacchia, i governi più penalizzati dalla perdita di quelle forniture.