mercoledì 24 giugno 2009
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La parità fra uomini e donne nel mondo del lavoro, nonostante i progressi compiuti, resta ancora un obiettivo lontano e non solo in Italia. Una delle dimensioni in cui emergono più evidenti le disuguaglianze fra i sessi è quella del livello retributivo: il cosiddetto gender pay- gap. Una questione che oggi, con la crisi, assume ancora più rilevanza e su cui si è soffermata anche la Commissione europea nella sua ultima relazione annuale sui progressi raggiunti in fatto di pari opportunità, stimando in un 17,4% lo scarto retributivo fra uomini e donne nei Paesi Ue. L’Italia per una volta non è il fanalino di coda. Da noi, infatti, il pay-gap sembra non raggiungere i livelli toccati in altre nazioni, nonostante le varie rilevazioni non siano proprio uniformi (dal 16% di Eurispes all’8,75% di Isfol, entrambi nel 2009). Ciò che più rileva, tuttavia, al di là della quantificazione del fenomeno, è l’individuazione delle sue molteplici concause e delle dimensioni su cui è possibile operare per incidere sulla forbice retributiva uomini-donne. Un prezioso e innovativo contributo in questo senso arriva da una ricerca condotta in collaborazione tra l’Osservatorio sul Diversity management di Sda Bocconi e Hay Group, che apre nuovi scenari sull’interpretazione delle differenze retributive e sulle strategie aziendali attivabili per ridurlo. Analizzando un campione di 100 aziende, con un 30% di donne lavoratrici sul totale di impiegati, quadri e dirigenti, la ricerca mostra che in termini di retribuzione fissa le donne percepiscono il 23% in meno degli uomini (-25% considerando anche la parte variabile). Un differenziale elevato ma non troppo, se lo si paragona a quello di analoghi campioni riferiti ad altri Paesi europei dove la partecipazione delle donne al Le donne scontano un differenziale retributivo negativo rispetto agli uomini. Per ridurlo, occorre anzitutto misurarlo correttamente Ricerca di Bocconi e Hay Group mercato del lavoro è maggiore che in Italia, come Belgio ( pay-gap al 29%) o Francia (42%). I risultati però cambiano drasticamente se si prendono a riferimento gli indicatori elaborati da Hay Group, che permettono di operare confronti scientificamente fondati fra i trattamenti retributivi a parità del grado di complessità della posizione lavorativa, misurato oggettivamente con un punteggio numerico (vedi intervista in pagina). Utilizzando questo approccio, emerge che le donne sono meno presenti nelle posizioni col grado di complessità maggiore, fatto che può spiegare una parte delle differenze retributive. Ma anche in posizioni equivalenti in termini di complessità, ed è questo il risultato più interessante, resta un pay-gap a favore degli uomini, anche se solo del 2%. Un divario non più giustificabile con motivazioni tradizionali (differenze d’inquadramento, di anzianità aziendale, d’età), che induce quindi a ricercare la vera 'discriminazione' in un fattore legato appunto al sesso, che tocca trasversalmente tutto il mondo del lavoro. La ricerca esprime, dunque, la necessità di indagare il fenomeno del pay-gap su piani che attengono a dinamiche di ordine culturale e cognitivo, prospettando due ambiti di azione possibili: da una parte soluzioni organizzative, di politiche non solo retributive ma gestionali e di sviluppo; dall’altra, percorsi individuali formativi che aiutino le donne a migliorare la propria capacità di affermarsi, proporsi, sviluppando le proprie potenzialità. È questa la duplice sfida per le aziende che intendono porre la questione della diversità di genere al centro delle loro strategie. E per la società nel suo insieme, che ha bisogno, ora più che mai, che i talenti siano espressi appieno per poter creare ricchezza da redistribuire. Retribuendoli senza differenze.
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