Ecco come contrastare il disimpegno dei lavoratori
di Redazione
Secondo il Global Workplace Report 2025 condotto da Gallup, il 25% degli italiani si proclama “attivamente disimpegnato”, contro il 16% della media europea

Negli ultimi tempi il concetto di quiet quitting ha suscitato un ampio dibattito all’interno del mondo del lavoro. Secondo il Global Workplace Report 2025 condotto da Gallup, il 25% degli italiani si proclama “attivamente disimpegnato”, contro il 16% della media europea. Interpretato dai più come un fenomeno silenzioso, non si traduce in dimissioni formali o in rivolte visibili, quanto piuttosto in un progressivo disimpegno emotivo dei dipendenti. Infatti, stando ai più recenti studi sul benessere mentale in azienda, una quota crescente di lavoratori (soprattutto under 40) si limita a svolgere il proprio compito senza più investire tempo, energia o passione oltre il necessario. Non per pigrizia, ma per una crescente disillusione nei confronti di un sistema che spesso chiede molto e restituisce poco. Cosa ci dice questo fenomeno? Possiamo parlare di una banale ondata di pigrizia o, più realisticamente, è un cambiamento profondo nel rapporto tra persone e organizzazioni?
«Nel contesto italiano, dove la cultura del lavoro è storicamente legata a un’idea di sacrificio, alla disponibilità continua e al senso del dovere, il quiet quitting rappresenta un cambio di paradigma profondo: il segnale che molte persone stanno ripensando il proprio rapporto con il lavoro - spiega Lorenzo Cattelani, ceo e fondatore di Clutch -. Non è una fuga, ma una forma di autodifesa: un invito urgente a ripensare modelli di leadership, percorsi di crescita e relazioni professionali oggi troppo spesso sbilanciate».
In molti casi, il quiet quitting rappresenta un esercizio di professionalità consapevole: persone che rispettano obiettivi, orari e ruoli senza mostrarsi eccessivamente disponibili o sacrificando molto di sé. Un comportamento legittimo, che riflette l’evoluzione di una generazione che non misura più il valore professionale in ore extra o nell’annullamento della sfera privata.
«Le aspettative disilluse, una leadership inefficace e una cultura aziendale orientata a tutti i costi alla performance: sono questi gli aspetti che provocano un progressivo distacco tra il dipendente e l’azienda. In questo senso, il quiet quitting può (e deve) essere letto come un segnale prezioso per le organizzazioni: non tanto una minaccia alla produttività, quanto un termometro del clima interno. Quando l’energia emotiva si affievolisce, quando le persone smettono di partecipare attivamente, di proporre, di collaborare, è lì che si misura il vero impatto del progressivo distacco e disallineamento. È fondamentale offrire percorsi di carriera e di formazione, occasioni di confronto e strumenti per valorizzare il singolo, evitando al contempo ridondanze organizzative e operative. Attraverso questo approccio, le aziende imparano a costruire una cultura interna basata sulla sostenibilità, anziché sull’eroismo lavorativo. Ma, soprattutto, è importante ricordare che un reale coinvolgimento negli obiettivi aziendali nasce solo quando le persone si sentono viste, ascoltate e valorizzate», prosegue Cattelani.
Oggi la vera sfida per le aziende non è “arginare il quiet quitting”, ma comprenderne le cause e ripartire da lì per cogliere un’opportunità di miglioramento verso l’attenzione al dipendente. Questo richiede autenticità, intesa come la capacità di costruire relazioni lavorative trasparenti, reciprocità, perché ci sia un equilibrio reale tra ciò che viene richiesto e ciò che viene riconosciuto.
In molti casi, il quiet quitting rappresenta un esercizio di professionalità consapevole: persone che rispettano obiettivi, orari e ruoli senza mostrarsi eccessivamente disponibili o sacrificando molto di sé. Un comportamento legittimo, che riflette l’evoluzione di una generazione che non misura più il valore professionale in ore extra o nell’annullamento della sfera privata.
«Le aspettative disilluse, una leadership inefficace e una cultura aziendale orientata a tutti i costi alla performance: sono questi gli aspetti che provocano un progressivo distacco tra il dipendente e l’azienda. In questo senso, il quiet quitting può (e deve) essere letto come un segnale prezioso per le organizzazioni: non tanto una minaccia alla produttività, quanto un termometro del clima interno. Quando l’energia emotiva si affievolisce, quando le persone smettono di partecipare attivamente, di proporre, di collaborare, è lì che si misura il vero impatto del progressivo distacco e disallineamento. È fondamentale offrire percorsi di carriera e di formazione, occasioni di confronto e strumenti per valorizzare il singolo, evitando al contempo ridondanze organizzative e operative. Attraverso questo approccio, le aziende imparano a costruire una cultura interna basata sulla sostenibilità, anziché sull’eroismo lavorativo. Ma, soprattutto, è importante ricordare che un reale coinvolgimento negli obiettivi aziendali nasce solo quando le persone si sentono viste, ascoltate e valorizzate», prosegue Cattelani.
Oggi la vera sfida per le aziende non è “arginare il quiet quitting”, ma comprenderne le cause e ripartire da lì per cogliere un’opportunità di miglioramento verso l’attenzione al dipendente. Questo richiede autenticità, intesa come la capacità di costruire relazioni lavorative trasparenti, reciprocità, perché ci sia un equilibrio reale tra ciò che viene richiesto e ciò che viene riconosciuto.
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