Effetto dazi: Pechino «invade» il mercato europeo, crolla l'export verso gli Usa
In calo del 27% le vendite di merci cinesi verso gli Stati Uniti, mentre la sovrapproduzione viene diretta verso altri mercati

Il dato più eclatante diffuso stamane è il crollo delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti: –27 per cento anno su anno. Un segno rosso che non sorprende più nessuno da quando è iniziata la crisi dei dazi, ma che pesa come un ulteriore avvertimento. Le tensioni commerciali, le tariffe elevate e la retorica aggressiva di Washington operano da mesi una frenata strutturale. È il sintomo di un divorzio economico ormai visibile, di una relazione logorata da reciproca diffidenza. Ma mentre i porti americani si svuotano, quelli degli altri continenti si riempiono. La Cina, fedele alla sua logica di adattamento rapido, sta invadendo con le sue merci nuovi mercati: le vendite verso l’Unione Europea (+14% su base annua), il Sud-Est asiatico (+15,6%), l’Africa (addirittura +56,4%) avanzano. In generale, la Cina fa segnare a settembre un +8,3% di export su base annua, un’accelerazione record, con una riorganizzazione che ridisegna le mappe del commercio globale.
L’Europa, in particolare, diventa sempre più centrale nella strategia di Pechino. L’afflusso crescente di beni cinesi – dai pannelli solari ai componenti elettronici, fino ai veicoli elettrici – mette in difficoltà la manifattura europea, già provata dal costo dell’energia e dalla stagnazione della domanda interna. In Paesi come Germania e Italia, dove la tenuta del settore industriale è ancora legata all’export e al valore aggiunto del “made in”, la pressione per la manifattura è sempre più forte. Il rimbalzo dell’export cinese verso il Vecchio Continente è quindi la faccia di una crisi più profonda: da un lato il declino del commercio con gli Stati Uniti, dall’altro la ricerca di nuovi sbocchi che rischiano di travolgere le economie europee più aperte. Dietro le cifre, si muove un disegno strategico che intreccia economia e geopolitica: la Cina aggira un mercato ostile come quello statunitense per consolidarsi in quelli disposti ad accoglierla. I proprietari delle fabbriche cinesi hanno peraltro poca scelta: sono costretti a tagliare i prezzi pur di attirare acquirenti esteri, mentre i consumatori interni tengono i portafogli chiusi con la domanda che resta stagnante.
Nel frattempo, Pechino mantiene una posizione di forza sulle terre rare, le materie prime indispensabili per l’industria high-tech e la transizione energetica. La loro esportazione rimane rigidamente controllata, una leva politica oltre che economica, che la Cina non esita a usare come risposta implicita alle restrizioni occidentali. È la conferma di un potere che non si misura più solo in termini di produzione, ma di controllo strategico delle risorse. I rapporti tra Stati Uniti e Cina continuano a oscillare tra il confronto e il disgelo temporaneo. Dopo un’estate di apparente distensione, con la pausa di 90 giorni sui dazi e i progressi nei colloqui tra le parti, la frattura è tornata a galla nei giorni scorsi: Pechino ha ribadito di non voler cedere sul controllo delle terre rare, Trump ha dichiarato che imporrà tariffe aggiuntive del 100% alla Cina e ha minacciato di annullare il vertice programmato tra due settimane in Corea del Sud con il presidente cinese Xi Jinping. Poi la marcia indietro della Casa Bianca: “Gli Stati Uniti vogliono aiutare la Cina, non danneggiarla”. Stamattina la replica di Pechino, con gli Usa invitati a "correggere immediatamente le loro pratiche sbagliate" sui dazi.
Un’analisi basata su studi di economisti dell’Università di Harvard e rilevazioni di mercato evidenzia che negli Stati Uniti sono state le aziende e i consumatori americani a sopportare fino ad ora la maggior parte del costo dei dazi. L’economista Alberto Cavallo ha monitorato 359.148 beni tra prodotti importati e domestici: da quando le nuove tariffe sono entrate in vigore, i prezzi dei beni importati negli Usa sono aumentati in media del 4%, mentre quelli dei prodotti interni del 2%. Gli incrementi maggiori nelle importazioni si sono registrati per i beni che gli Stati Uniti non possono produrre internamente, come il caffè, o che provengono da Paesi fortemente penalizzati, come la Turchia. La teoria trumpiana secondo cui sarebbero stati i produttori stranieri a pagare si è dissolta nei numeri. La realtà è che le imprese statunitensi hanno dovuto assorbire i costi dei dazi, trasferendone una parte ai consumatori.
Parallelamente, i fornitori esteri hanno alzato i listini in dollari, compensando la svalutazione del biglietto verde. Il risultato è stato un rialzo dei prezzi e una spinta aggiuntiva all’inflazione americana. La Federal Reserve calcola che le tariffe abbiano inciso per 30-40 punti base sull’attuale inflazione di fondo, oggi al 2,9%, mentre il Peterson Institute for International Economics stima un impatto complessivo fino a un punto percentuale in più su base annua. L’effetto, avvertono gli analisti, potrebbe prolungarsi per mesi, complicando ulteriormente la gestione monetaria e i tentativi di frenare il caro-vita.
Tutto questo si riflette nell’atmosfera che accompagna oggi l’apertura dei meeting autunnali di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale a Washington. I vertici delle istituzioni economiche più influenti del pianeta si ritrovano in un clima di crescente incertezza, con il commercio globale che rallenta e le tensioni tariffarie che non si dissolvono. Il mondo osserva Pechino spostare il baricentro delle sue esportazioni, gli Stati Uniti chiudersi in difesa e l’Europa cercare un equilibrio sempre più fragile.
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