Troppo riarmo: a Bruxelles economia sociale in bilico
La cancellazione della Social Economy Unit dalla Direzione Generale Grow ha fatto scattare l’allarme. Calderini, direttore di Tiresia: il paradigma bellicista mette in discussione conquiste import

L’Europa dell’economia sociale è in subbuglio. Una serie di decisioni prese a Bruxelles hanno mostrato che il vento è cambiato: l’economia sociale non sembra più fra le priorità dell’Unione Europea. «Il clima è molto brutto, ormai in Europa se non dici “difesa” o “riarmo” ogni due parole, non ti sta a sentire nessuno»: ad affermarlo è il professor Mario Calderini, direttore di Tiresia, il Centro di ricerca su finanza e innovazione a impatto sociale della School of Management del Politecnico di Milano. Membro del GECES, il Gruppo di esperti della Commissione Europea sull’economia sociale, Calderini è stato incluso dalla piattaforma globale Apolitical fra i 100 accademici più influenti al mondo su temi di impatto sociale delle politiche pubbliche. Sentirlo tanto sconsolato e irritato da ciò che sta accadendo colpisce.
«La Commissione Ue – sintetizza il professore –, preso atto di non saper fare politica industriale in altro modo, ha deciso di farla con la difesa. Ciò è anche il frutto malato da una parte del Rapporto Draghi, dall’altra di una oscena campagna culturale che pone in rivalità competitività e sostenibilità: questo è il grande vulnus». Qualche settimana fa Stéphane Séjourné, vice-presidente esecutivo della Commissione Europea e commissario europeo per l'Industria, l'imprenditoria, le Pmi e il mercato unico, ha cancellato dalla Direzione Generale (DG) Grow l’Unità dedicata all’Economia Sociale. Bloccando tutti i programmi di finanziamento, anche quelli in essere. Sollecitata dal GECES a chiarire la decisione, la DG Grow ha risposto che il GECES non è più affar suo ma unicamente della DG Lavoro e Affari Sociali. Mentre prima il GECES era co-gestito da entrambe le DG. E non si tratta, come potrebbe apparire, di una questione formale: «La Social Economy Unit – spiega Calderini – aveva fatto cose importanti, a partire dall’Action Plan sull’economia sociale, poi approvato dalla stessa Commissione von der Leyen nella passata legislatura, sulla cui base gli Stati membri hanno iniziato a lavorare sui rispettivi piani nazionali per l’Economia Sociale. Aveva un ruolo decisivo quanto a presidio, attenzione, anche per i finanziamenti all’economia sociale». Segnali assai poco incoraggianti si erano già avuti mesi fa. Quando, al momento di assegnare le deleghe ai commissari, Ursula von der Leyen si era, diciamo così, scordata quella sulla Social Economy. In seguito alle proteste che già allora si erano levate, la delega era stata poi assegnata alla romena Roxana Minzatu, vice-presidente esecutiva della Commissione Ue e commissaria al Lavoro e Affari sociali.
Ora la cancellazione della Unit ha fatto scattare l’allarme rosso. Le grandi reti e i grandi stakeholder dell’economia sociale in Europa sono passati all’azione. Sono stati lanciati diversi appelli alla Commissione Europea affinché tornasse sui propri passi, fra cui uno di Social Economy Europe – che rappresenta oltre 4 milioni di organizzazioni e imprese sociali in Europa –, che hanno registrato un boom di adesioni. E si sta ragionando su ulteriori iniziative, che potrebbero anche sfociare in una richiesta di Stati Generali europei dell’Economia Sociale. Ma quali sono le possibili conseguenze e i rischi di lungo periodo, se la Commissione Ue dovesse proseguire sulla strada che ha preso? La lettura di Mario Calderini è estremamente preoccupante: «Agghiacciante – dice – è il messaggio culturale implicito in queste decisioni. Che sono conseguenza diretta di una visione muscolare di ciò che serve per la crescita, la produttività e la competitività: tutta finanza e investimenti industriali, senza attenzione a coesione e giustizia sociali. Un paradigma bellicista nuovo ma in realtà vecchio, un industrialismo tornato indietro di decenni. Che mette in discussione le importanti conquiste che si erano fatte sull’economia sociale come strumento di contrasto alla “mercatizzazione” dell’impresa, in cui il profitto ha il dominio totale e il sociale è relegato ai margini. L’Europa era riuscita a saldare le politiche di crescita e le politiche sociali, riconoscendo l’economia sociale come uno dei pilastri del modello di sviluppo. Fra gli ingredienti che ora, invece, hanno avvelenato la situazione c’è stata anche la reazione, che definirei un po’ psichiatrica, dell’industria europea e delle sue rappresentanze, oltre che della politica, di fronte a un chiaro problema di competitività industriale: si è scelta la scappatoia più facile ma più stupida, dando la colpa a supposti eccessivi vincoli legati alla sostenibilità. Il che è anche figlio del fatto che i criteri Esg (ambientali, sociali e di governance, ndr) pian piano sono stati resi una tale porcheria da risultare indifendibili. Per cui oggi si dice che le politiche di crescita non c’entrano più nulla col sociale: si punta sul riarmo dicendo che è la strada per la competitività, la ricchezza e il benessere. Ma non è così, si tratta di una svolta negativa: non solo per chi teme che il riarmo sia l’anticamera della guerra, ma perché così facendo l’Europa abbandona la via identitaria alla competitività e allo sviluppo che aveva imboccato. Una via lastricata di coesione sociale, welfare, modelli d’impresa attenti alla distribuzione del dividendo sociale ed economico».
Per fortuna qualche spiraglio di luce c’è. La causa dell’economia sociale sta trovando un alleato, forse insperato, nel Parlamento Europeo: «Sta dimostrando un’attenzione superiore al passato – sottolinea Calderini –, specie col buon lavoro che sta facendo l’Intergruppo sull’economia sociale», col quale il professore ha avuto contatti diretti sebbene informali. Il 13 maggio proprio l’Intergruppo ha organizzato a Bruxelles un incontro per discutere di economia sociale, al quale sono intervenute la Commissaria Minzatu e la ministra del Lavoro e dell’Economia sociale spagnola, Yolanda Diaz: «In un momento di guerre e incertezza – ha detto con forza Diaz – l’economia sociale è la chiave. Non c’è un’economia più resiliente, solidale, verde e femminista di questa». Il commissario Séjourné non è intervenuto di persona ma ha inviato membri del suo gabinetto: un segnale, forse, che la reazione del mondo dell’economia sociale si sta facendo sentire.
Ma se la spinta dal basso non dovesse bastare per far cambiare rotta ai “manovratori”? «Di fronte a un modello di sviluppo improntato a una matrice bellicista – conclude Calderini –, diventerebbe decisiva la tenuta dei grandi interlocutori sociali planetari, come la Chiesa cattolica. Del resto l’identità e la tradizione dell’economia sociale hanno grandemente beneficiato della dottrina sociale della Chiesa, espressa in encicliche quali la Rerum novarum o la Fratelli tutti. In questo senso ricordo le tante aperture di papa Francesco: anni fa il Financial Times parlò addirittura di “blessed returns” (“rendimenti benedetti”) in riferimento all’interesse della Chiesa per gli investimenti a impatto sociale (su cui il Vaticano tra 2014 e 2018 ha organizzato a Roma tre conferenze internazionali, ndr). È anche lì che affondano le radici dell’economia sociale europea».
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