La devozione del brand: quando il marketing spinge sul «culto» commerciale
di Luca Miele
I marchi cercano sempre più di cementare la «comunità» dei clienti, mentre gli smartphone parcellizzano le esperienze in nicchie digitali

Ricordate i barattoli di zuppa immortalati da Andy Warhol? Segnarono l’inizio di un’epoca, o meglio il suo compimento. L’ingresso trionfale della merce (e della serialità) nei territori dell’arte, la caduta dell’ultima parete tra il commerciale e il sublime (o, se preferite, il kitsch). Il barattolo Campbell rispondeva a un impulso profondo e, allo stesso tempo, superficiale: la standardizzazione. Una omologazione che in qualche modo intercettava (o favoriva) un vagheggiamento che gorgogliava nelle menti del consumatore americano: essere uguale agli altri, consumare gli stessi prodotti e accedere, così, allo stesso livello di soddisfacimento simbolico e allo stesso status. Il brand funzionava come una sorta di commutatore semantico: ciò che è profondo (per esempio la fame) finiva per aderire al superficiale (all’etichetta del prodotto, in questo caso il contenitore della zuppa). Per il marketing la “partita” era (relativamente) facile: catturare proprio quel bisogno di standardizzazione.
Da allora molto è cambiato. Il quadro d’insieme si è spezzettato, la vocazione all’unanimità si è dissolta: oggi i consumatori non vogliono essere uguali agli altri, ma circondarsi del privilegio dell’esclusivo, illuminarsi con l’originalità. Specchiarsi in piccole nicchie, a metà tra l’esoterico e l’esclusivo. Qual è allora il collante che tiene uniti i frequentatori delle singole bolle o nicchie o segmenti di mercato? La devozione, è la risposta di Gianluca Diegoli, nel suo bel saggio Seguimi! Il marketing come culto, il culto come marketing (Utet, pag. 288, euro 18,90). Esemplare, spiega l’esperto di marketing, è il caso della Apple, forse il marchio più universalmente noto al mondo. «Mi sono fatto l’idea – scrive Diegoli in Seguimi! – che il vero vantaggio competitivo di Apple è la fede incrollabile dei suoi clienti». Siamo davanti a una trasferimento/ scivolamento della “devozione”, dalla sfera dalla spiritualità a quella dei consumi. Una tendenza che Luigino Bruni ha catturato con nettezza: «Il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione». Siamo davanti all’ultima piroetta di quel “feticismo” che già Marx aveva individuato nella merce. Quel qualcosa che eccede la materialità dell’oggetto e dei bisogni che esso è chiamata a soddisfare. È l’aurea. A diffonderla oggi non solo più gli oggetti, ma i brand.
Ma come funziona oggi questa sorta di “filiazione” (emotiva, identitaria, devozionale) dei consumatori alle merci? Quali sono le strategie che i marchi mettono in campo (e sfruttano) per incrementare questi “culti” minori ma tenaci? Per Diegoli l’analisi non può prescindere dalla rivoluzione digitale e da quell’oggetto (quella sorta di protesi dell’umano) che sembra tiranneggiare il nostro tempo, immergendoci in un flusso continuo di notizia, immagini, esperienza: lo smartphone. È proprio questo strumento a favorire il processo di “individualizzazione”, di spezzettamento: l’esperienza smarrisce la sua vocazione comunitaria, non affonda più in un terreno comune, ma diventa letteralmente “cellulare”. «La società – scrive ancora l’autore – si connette in modo permanente via smartphone e contemporaneamente si frantuma in nicchie digitali, i prodotti lasciano definitivamente il passo alle “esperienze”». La individualizzazione delle esperienze che lo smartphone promuove ha modificato profondamente così l’orizzonte, e non solo quello percettivo. È cambiato l’oggetto stesso della devozione. Si produce, così, uno doppio caso di rifrazione. Primo: l’autorealizzazione sembra essere la nuova ossessione del mondo consumistico. «D’ora in poi i brand di culto si creano un seguito trasformando ogni offerta in una forma di realizzazione di sé stessi».
Non si compra e basta, ci si realizza. Il consumo scopre una nuova vocazione: « I marchi diventano delle “spugne semantiche”, assorbendo valori e restituendoli come prodotti. “A che cosa serve?” diventa una domanda antiquata. La risposta è sempre “A riempire i vuoti di senso” che il marketing si preoccupa, per sicurezza, di alimentare ». L’era dei social media ha finito per ingrossare (e far straripare) questa attitudine, incoraggiando «la performance del sé, cioè la cura ossessiva della propria immagine condivisa per ottenere approvazione». Più la nostra vita si è parcellizzata, più diventa desocializzata, più si sgancia dalla comunità reale per immergersi in quella immaginaria, più si svolge lontano dalle agorà reali, più diventa forte l’esigenza di appartenenza a un gruppo “elettivo”. È questo che il marketing prova a capitalizzare e intercettare. Scrive ancora Diegoli: «Oggi, non a caso, se c’è una cosa che accomuna tutti i brand cult, è il tentativo di cementare una comunità tra i propri clienti e un legame tra chi si riconosce nel brand». Il concetto tradizionale di brand di culto di massa è così entrato in crisi. Sostituito da cosa? «Il capitalismo non cerca più di creare pochi megabrand, ma costellazioni di MICROBRAND in grado di saturare qualsiasi vuoto di mercato, piccolo o grande che sia».
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