La crescita da sola non fa la felicità: come vivere (bene) senza l’assillo del Pil
di Luca Miele
Da anonimo indicatore statistico-matematico il Pil è diventato una sorta di Moloch che tiranneggia le nostre vite. Per l’economista francese Parrique un’altra via è tuttavia possibile: quella che privilegia la sobrietà

Una sorta di Moloch si è installato prepotentemente nella nostra vita quotidiana, e tracimando dalla sfera economica, ha conquistato e colonizzato integralmente l’ambito sociale: è il Pil. Nel giro di una manciata di decenni quello che era un anonimo indicatore matematico-statistico è diventato un insindacabile e tiranneggiante “termometro” mondiale. Il discorso pubblico è oggi inchiodato ai suoi “umori”: sale, scende, rallenta, staziona, accelera, precipita.
La sua “sovranità” potrebbe sembrare ben fondata: cosa funziona meglio di una misurazione con pretese scientifiche quale pretende di essere, appunto, il Prodotto interno lordo? E invece no, trattasi di una sorta di illusione prospettica, di un gioco (quasi) di prestigio. Il Pil – è la tesi che l’economista francese Timothée Parrique propone in Rallentare o morire. Per un’economia della post-crescita (Marsilio, pag. 285, euro 19) – è una misura tutt'altro che asettica, neutrale, scientifica. Al contrario, è decisamente parziale. Per l’economista francese il Pil è paragonabile a una rete piena di (giganteschi) buchi. Alla sua cattura sfuggono infatti, scrive, «le produzioni senza equivalente monetario», vale a dire (quasi) tutto ciò che concorre a costruire il nostro ben-essere. La lacuna più dannosa ascrivibile al Pil? È la natura. Siamo davanti a un paradosso: la distruzione sistematica di un ecosistema, anziché pregiudicarlo, può spingere in alto il Pil.
«La calcolatrice del Pil – scrive l’economista – ha un solo tasto, ed è un “+”. La produzione di un vaccino, di un frigorifero collegato, di un prodotto finanziario speculativo, di antidepressivi, o le ore di pulizia necessarie dopo una fuoriuscita di petrolio sono tutte cose che contribuiscono al Pil allo stesso modo; sono produzioni che si aggiungono in funzione del lavoro valore mercantile». Il secondo è un “difetto” costitutivo. Essendo una misurazione esclusivamente quantitativa, il Prodotto interno lordo funziona come un gigantesco contenitore che finisce per omogeneizzare e livellare tutto. Questo smontaggio consente di approdare a una prima conclusione. Il Pil «non sarà mai un indice di benessere». Ma non basta. L’ipertrofia della crescita economica – intesa come dilatazione inarrestabile della sfera economica che annette a sé tutti gli altri segmenti del sociale originariamente non riconducibili a essa, con conseguente imposizione della sua logica – porta a quella che Jacques Généreux ha definito la “dissocietà”, la progressiva involuzione e dissoluzione del sociale. Il rischio al quale andiamo incontro è “la mercificazione totale” dell’intera sfera dell’esistente. Se l’unica logica imperante è quella economica, tutti gli altri collanti – religiosi, etici, sociali – rischiano di collassare.
Che fare? Come difendersi? Di fronte alla tirannia della crescita, «la sfida che abbiamo di fronte – insiste Parrique - è quella del meno, del più leggero, del più lento, del più piccolo. È la sfida della sobrietà, della frugalità, della moderazione e della sufficienza». Ecco, dunque, la ricetta. Primo: smontare l’equivalenza crescita-benessere. «Il Pil si riduce in buona parte a un’agitazione cieca, stimolata tanto dalla richiesta di cose essenziali quanto dell’accumulo di cose inutili», attacca Parrique. Secondo: decentrare l’imperativo della crescita. Affiancando – e preferendo – alla quantità la qualità. Alla ridondanza l’essenzialità. All’accumulo (bulimico) la sobrietà. In una formula, bisogna rispolverare il paradigma della decrescita. Parrique ricostruisce la genealogia e la costellazione dei concetti confluiti in questo paradigma. Il contributo più noto è quello offerto da Serge Latouche che sagoma la decrescita come «decolonizzazione dell’immaginario», come movimento per «diseconomizzare le menti».
La partita è prima di tutto simbolica. Bisogna scavare spazi di autonomia dentro il debordante discorso pubblico incentrato sulla crescita. La decrescita – meno cose, meno ore di lavoro, meno consumi, meno sfruttamento estrattivo delle risorse – può portare a una corrispondete crescita relazione e spirituale, può ampliare la sfera del sociale, migliorare la qualità dei servizi, nella consapevolezza che «ciò che conta davvero per il benessere non è il potere d’acquisto, ma il potere di vivere». «È perfettamente possibile ridurre drasticamente il valore aggiunto monetario di un’economia e allo stesso tempo aumentare il valore aggiunto sociale ed ecologico». Resta la sfida: come tradurre la teorizzazione in azione? Come forare la “tirannia” della crescita? L’erosione dell’onnipotenza del Pil è compatibile con il movimento di crescita ipertrofica del complesso economico-politico che sembra, sempre più, governare le nostre vite? Quel movimento che si risolve, da un lato, nella mobilitazione perenne dei cittadini-consumatori, dall’altro nell’economicizzazione di tutto ciò che esiste?
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