Non solo smartworking: il benessere in azienda è questione di ascolto
di Cinzia Arena
Anna Zattoni, co-fondatrice di Jointly: il welfare tradizionale basato su bonus e rimborsi non basta più, il problema delle imprese adesso è riuscire a fermare il turnover

Le aziende sono convinte di fare molto, ma questi sforzi non sono “recepiti”. È in questo “gap” di percezione che si gioca quello che potremmo definire il mismatch tra le politiche di “benessere”, concetto più ampio e articolato del tradizionale welfare aziendale, messe in campo e il loro impatto reale sulla vita dei destinatari. Con conseguenze disastrose: difficoltà a reperire personale, turnover elevato e scarsa motivazione di chi rimane. Eppure gli antidoti ci sono: ascolto, comunicazione, misurazione dei risultati e soprattutto organizzazione. In un Paese come l’Italia dove le retribuzioni sono basse, non sono soltanto gli incentivi economici ad attrarre e trattenere i talenti. Ma lo “stare bene”, vale a dire essere messi nelle condizioni di crescere professionalmente e al tempo stesso di conciliare la propria vita in ufficio con quella “fuori”. Da tre anni a cercare di dare forma ad un cambiamento possibile è l’Osservatorio sul Corporate wellbeing realizzato da Jointly, una B Corp italiana che si occupa proprio di benessere aziendale studiando soluzioni innovative per oltre mille realtà (da poco acquisita dal gruppo di consulenza Marsh McLennan), e The European House Ambrosetti. «Ma quale benessere? Un framework per navigare nel complesso mondo del benessere delle organizzazioni, tra welfare aziendale e corporate wellbeing» il tema scelto quest’anno e approfondito grazie ad interviste a 120 tra imprenditori, amministratori delegati e direttori del personale.
Da quello “snodo” epocale che è stata la pandemia il mondo del lavoro ha subito un cambiamento radicale. Un terremoto che ancora oggi genera scosse di assestamento. Il lavoro non manca, il record di occupati viene aggiornato ogni mese, anzi c’è una forte mobilità. Il 78% delle aziende ha difficoltà ad assumere personale come certificato dall’Osservatorio del Politecnico sulle risorse umane. Il 41% degli italiani, in base ad un’analisi di Gallup, se potesse lascerebbe il proprio posto di lavoro.
«Il fenomeno delle grandi dimissioni lo stiamo per certi versi vivendo adesso in Italia: erano un milione nel 2016 e adesso sono 2,2 milioni», ha spiegato Paolo Iacci, direttore scientifico di AIDP (Associazione per la Direzione del Personale) e presidente di Eca, nel corso della presentazione del rapporto. Per frenare questa emorragia le aziende si concentrano sull’aspetto economico o su singole iniziative, ad esempio lo smartworking, ma non hanno una visione d’insieme. Francesca Rizzi, ceo e cofondatrice di Jointly insieme ad Anna Zattoni, sottolinea come sia indispensabile un cambiamento. «Adottare misure di welfare aziendale tradizionale dai buoni pasto ai rimborsi, adottati dal 61% delle aziende, è utile ma non è più sufficiente. Diventa invece essenziale passare da una concezione fiscale del welfare ad una più ampia strategia di benessere organizzativo». Un piano ben strutturato può avere per il collaboratore un valore 4,5 volte superiore rispetto all’investimento dell’azienda e portare ad un aumento della produttività (che in Italia è stagnante dal 2000) del 20%.
Nel 2024 per la prima volta il motivo principale del cambio di lavoro, in base al rapporto di Jointly, è stata la ricerca di un maggior benessere fisico e mentale (36%). Ogni dimissione però ha un costo che nella media è pari a circa il 50% dello stipendio lordo annuo del dipendente. A conti fatti i costi complessivi del turnover rappresentano il 16% del costo totale del personale di un’azienda. Il rapporto quantifica anche il mismatch di benessere: il 72% delle aziende ha aumentato significativamente i budget, ma solo un lavoratore su quattro percepisce questi sforzi e solo il 10% afferma di sentirsi bene dal punto di vista psico-fisico e relazionale. Colpa della mancanza di dialogo, soltanto il 50% delle aziende coinvolge direttamente i dipendenti con colloqui informali e sondaggi, e della mancanza di misurazione dei benefici prodotti dalle misure adottate.
Quattro i livelli di intervento che Jointly ha osservato: l’approccio basato sul welfare contrattuale, vale a dire sugli integrativi, quello sugli employee benefit buoni pasto, assicurazioni, previdenza complementare, quello sul people caring e personal wellbeing con misure di flessibilità oraria e smartworking e infine quello (appannaggio quasi sempre delle aziende più grandi) che sceglie il corporate wellbeing, con una strategia complessiva. Ma soprattutto tagliata su misura per le esigenze dei dipendenti, non “calata” dall’alto. «Le persone chiedono offerte differenziate che rispondano alle loro necessità – spiega ancora Rizzi – il problema non è fare di più ma ascoltare e chiedersi “cosa manca”? Fare interventi mirati che si basino sull’ascolto, sulla comunicazione e sul monitoraggio». In questo modo si può ottenere un maggiore engagement del lavoratore (stimato in circa il 54%) e combattere il fenomeno del quite quitting, vale a dire della permanenza di lavoratori scontenti che scelgono di rimanere perché non hanno altre alternative. Altrettanto preoccupante il fenomeno del “ghosting” del candidato, che sparisce letteralmente prima o dopo un colloquio. Investire sulla propria reputazione, non solo all’esterno verso i consumatori ma anche verso i lavoratori, sembra essere un “skill” indispensabile per le imprese. Qualcosa però si sta muovendo in questa direzione. «Faccio qualche esempio concreto – dice Facci – la STMicroelectronics di Agrate, ad esempio, ha due “carriere” separate quella manageriale e quella prettamente scientifica che ha un impatto enorme sul business. Per fidelizzare gli ingegneri l’azienda punta da sempre sulla formazione e sulla condivisione del sapere tra generazioni. Un bonus che vale più di molti incentivi economici. Altro esempio virtuoso quello di Ikea che in certi team consente modifiche dei turni in autonomia tra i dipendenti, per garantire una conciliazione».
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