Il cashmere non è solo roba da ricchi: «In Mongolia diamo aiuto ai più fragili»
Gli stivali di Chimgee e la semina di Undrahbayar: l’Aifo al fianco dei disabili

Nella sera d’autunno il buio sulla infinita steppa mongola cala all’improvviso. Nella tenda conica tradizionale, la ger, la famiglia di Aiunbaatar Purev ci accoglie attorno alla stufa, dove cuoce sempre una pentola di carne o di latte. Sono da anni pastori di un gregge di 2.000 capi composto da capre, pecore, mucche e cavalli. Circa il 27-30% della popolazione mongola vive sotto la soglia di povertà nazionale, concentrata soprattutto nelle aree rurali. Nella scala sociale della steppa non se la passano male. Siamo arrivati in tempo, pochi giorni e arriveranno i venti siberiani gelidi, spazzando la prateria della remota provincia di Hentii, dove la leggenda vuole sia nato Gengis Khan, a 330 lunghissimi chilometri di viaggio in auto dalla capitale sull’unica strada a due corsie. La Mongolia è grande cinque volte l’Italia e, con una popolazione al di sotto dei tre milioni di abitanti, è il Paese più spopolato della Terra.

I Purev ogni anno si spostano verso un luogo più riparato che il capofamiglia ha appena scelto con cura. I tre figli vanno in un convitto scolastico fino al ritorno della bella stagione, i genitori si trasferiscono nella ger (i russi la chiamano yurta) invernale, che resiste a temperature impossibili, accanto alla quale la mandria attende il disgelo. I Purev fanno parte del quarto di popolazione mongola che resiste e conduce una durissima vita nomade con la pastorizia. Nel 2008 anche loro erano sul punto di mollare e trasferirsi, come tanti, nella capitale Ulan Bator, città in continua espansione e tra le più inquinate al mondo, circondata alla periferia dalle ger bianche dei nomadi inurbati. Un percorso che spesso porta a emarginazione ed alcolismo. Li ha salvati inaspettatamente Altantsoji, il fratello della moglie affetto da disabilità intellettiva. Quello che era un problema è diventato un pilastro. La maggior parte delle persone con disabilità in Mongolia vive infatti in condizioni di povertà perché l’assegno mensile di assistenza sociale è insufficiente e molte persone – soprattutto nelle aree remote - non conoscono i loro diritti che vengono spesso violati. Invece grazie a lui sono stati selezionati dai servizi sociali della provincia per partecipare a un programma di empowerment delle persone con disabilità e delle loro famiglie avviato da una Ong italiana, Aifo, gli Amici di Raul Follereau. Il tre per cento dei tre milioni di cittadini mongoli è affetto da una forma di disabilità e, per mancanza di prevenzione, cure e lo stigma persistente, le barriere da abbattere restano molte. «Aifo è l’unica ong italiana a lavorare stabilmente in Mongolia – spiega la responsabile paese Simona Venturoli – attraverso l’ong locale Tegsh Niigem dal 1991, anno in cui è caduto il comunismo sovietico e l’Urss, di cui era uno stato satellite». Aifo iniziò con la traduzione delle linee guida dell’Oms sulla disabilità in una società che si affacciava alla democrazia. «In modo particolare – prosegue Venturoli – lavoriamo cercando di fare empowerment con le persone con disabilità perché possano credere in loro stesse e far sentire la propria voce perché nessuno può parlare per loro. Adottiamo il metodo della riabilitazione su base comunitaria, strategia che assegna al disabile un ruolo attivo nella propria emancipazione e richiede una partecipazione diversa alla comunità che lo circonda (familiari e amici, ma anche dottori e tecnici)».
Il numero dei pastori nomadi si sta assottigliando a causa dei mutamenti climatici. Le prime vittime sono le preziose capre da cashmere. Da una si possono ricavare solamente 200 grammi di pregiatissimo cashmere l’anno. Il prezzo del filato oggi varia tra i 160 e i 170 euro al chilo e, con una quota del 40% del mercato globale, la Mongolia è il secondo produttore al mondo. L’Italia è il principale importatore di cashmere non trattato. Insomma vale la pena provare. Aifo nel 2008 ha deciso di supportare fino al 2015, attraverso un progetto innovativo di cooperazione allo sviluppo, 2.300 famiglie con 600 componenti disabili. Ha preferito non assegnare fondi ai beneficiari selezionati dai servizi sociali provinciali, bensì 20 capre che poi dovevano dopo due anni essere restituite in modo che potessero essere donate a rotazione ad altri. «Le abbiamo restituite dopo un anno – racconta Aiunbaatar Purev – e oggi dopo 17 anni possediamo 2.000 capi, compresi mucche, cavalli, pecore e capre, acquistati grazie al cashmere». Hanno vinto la battaglia contro i mutamenti del clima, con la loro resilienza e un microcredito di 20 capre.

Chimgee ha invece vinto la sua battaglia grazie ai coloratissimi stivali tradizionali della Mongolia e sempre ad Aifo. Li tiene in mano con orgoglio, ce li mostra nello scantinato adattato a laboratorio in un vecchio condominio sovietico in un distretto semicentrale di Ulan Bator. La donna, 59 anni, 30 anni fa era in preda allo sconforto come molti mongoli. Con il crollo del comunismo e dell’Urss, erano finiti i sussidi alle fabbriche di stato. C’era finalmente libertà d’impresa, ma si erano ritrovati poveri. E lei, operaia in una fabbrica statale di scarpe, era disoccupata e con una sorella disabile da mantenere. Poi l’idea.
Gli stivali tradizionali mongoli, i Gutal, sono realizzati con materiali diversi come pelle, stoffa e feltro e in morbida pelle con la punta appuntita. Arrivano a metà polpaccio e hanno il tacco basso. Sono spesso decorati con perline o ricami e sono di colore nero o marrone. «Vengono usati – spiega la donna – per feste speciali, matrimoni, cerimonie. Vengono usati anche dai lottatori di wrestling, lo sport nazionale. E si usano quotidianamente specie nelle regioni dove le condizioni climatiche sono più estreme. Io li sapevo fare. Allora ho deciso di mettermi in proprio a produrli a casa mia con una vecchia macchina da cucire e per il resto lavoravo a mano. Mia sorella mi aiutava, ma non riuscivo a fare le consegne, non ce l’avrei fatta senza i finanziamenti di Aifo per famiglie di persone disabili». Nel 2005 ha ottenuto un prestito iniziale della durata di 6 mesi dal comitato di riabilitazione comunitaria distrettuale e ha comperato un altro macchinario e ha affittato il laboratorio. «Oggi con me lavorano quattro persone. Due sono disabili, tra cui mia sorella».
La lavorazione artigianale è impegnativa e Chimgee fa fatica a soddisfare tutti gli ordini. Ma tiene duro. «Vendiamo online anche all’estero – spiega – in Corea del Sud, negli Stati Uniti dove c’è la diaspora più numerosa e in Cina. Vendiamo soprattutto on line». Quando ha capito di avercela fatta? «Quando sono riuscita a entrare nel mercato dei lottatori e sono cominciate le richieste dei monaci buddisti e degli sciamani».
Una caduta può avere esiti differenti in Mongolia rispetto all’Italia per la differenza di cure e le difficoltà di accesso. Undrahbayar, 41 anni è rimasto inchiodato alla sedia rotelle da paraplegico dopo una scivolata in un fiume in estate che gli ha provocato la rottura delle vertebre vicino al collo. Era un ingegnere con prospettive brillanti, con un master in tecnologie dei materiali in Thailandia. Sposato con tre figlie piccole, si era chiuso in casa e si stava lasciando andare per la vergogna e le difficoltà concrete a uscire e a spostarsi nella caotica capitale mongola. Una speranza è arrivata aderendo alla associazione Universal progress che promuove i diritti e la partecipazione delle persone con disabilità, partner di Aifo. Universal progress quattro anni fa gli propose di partecipare con altre persone di diverse disabilità al progetto Green inclusion finanziato dall’Unione buddista italiana. In un vivaio pochi chilometri fuori dalla capitale ha partecipato all’iniziativa del presidente della Mongolia, Ukhnaagiin Khurelsukh, di piantare un «miliardo di alberi» in tutto il Paese per contrastare siccità e mutamenti climatici. È stato lui a organizzare i gruppi di lavoro in cui sono divisi i partecipanti. «Abbiamo curato la semina – spiega – la messa in serra e la crescita di arbusti, betulle e sempreverdi. Diamo un contributo al futuro di questo Paese cercando di ricreare la natura come era prima che l’uomo la trasformasse. Ed è un valore aggiunto inestimabile che possano partecipare al progetto persone come noi, che altrimenti vivrebbero ancor più ai margini». Il verde che torna in Mongolia ha portato speranza, i progetti di cooperazione per i disabili il riscatto.
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