Granata: «Un ruolo per la finanza a impatto. Ma servono progetti su larga scala»

September 22, 2025
Granata: «Un ruolo per la finanza a impatto. Ma servono progetti su larga scala»
Stefano Granata
Nel mondo post-pandemico, attraversato da nuove crisi geopolitiche, tensioni economiche e transizioni ancora incompiute, l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sembra più lontana. Eppure, proprio in questo contesto, l’investimento a impatto sociale e ambientale trova uno spazio di senso e opportunità. Ne parliamo con Stefano Granata, presidente di Social Impact Agenda per l’Italia, rete nazionale dedicata alla promozione della finanza a impatto, che negli ultimi anni ha avuto un ruolo chiave nel portare questo tema nel dibattito pubblico. «Fino a pochi anni fa – racconta – parlare di finanza a impatto sembrava una cosa per addetti ai lavori. Oggi non è più così. Questo approccio è entrato nel linguaggio comune, anche tra grandi investitori e istituzioni. Il fatto che eventi come quello organizzato recentemente in Cassa depositi e prestiti, cuore pulsante degli investimenti in Italia, siano dedicati proprio alla finanza a impatto è il segnale di un’evoluzione concreta». Un cambiamento che parte dal linguaggio ma tocca anche le strutture economiche.
«Stiamo assistendo a un passaggio – prosegue – dalla Csr tradizionale a un modello in cui la sostenibilità è garantita da criteri chiari e misurabili di impatto. Non basta dire “faccio il bene”: devo poterlo misurare, tracciarne gli effetti, valutarne la portata sociale e ambientale. Questo approccio, tuttavia, non è ancora il mainstream degli investimenti privati. Ma ci stiamo avvicinando». Il gap resta grande. Secondo Granata, la questione chiave è come costruire strumenti finanziari e progettualità credibili che attirino investimenti in settori dove oggi lo Stato fa fatica a intervenire: «Pensiamo alla sanità, al tema della longevità, all’abitare sociale. Sono ambiti con bisogni certi, crescenti, eppure sottofinanziati. La finanza a impatto può giocare un ruolo decisivo, se accetta una remunerazione più contenuta e un orizzonte di ritorno più lungo. Perché lì, tra dieci o vent’anni, ci sarà una domanda ancora più forte». Ma non basta attrarre capitali privati: serve una cabina di regia condivisa tra pubblico e privato. «Il pubblico – spiega – deve capire che ha bisogno del privato per disegnare infrastrutture sociali. E il privato non può accettare di essere coinvolto solo in fase esecutiva, senza possibilità di incidere sulle decisioni o sulla governance dei progetti. Oggi questo è uno dei nodi che bloccano strumenti come la coprogettazione e la coprogrammazione, che sono rimasti in gran parte sulla carta perché il pubblico non si spoglia del proprio monopolio decisionale».
Uno scenario complesso, reso ancora più instabile da fattori internazionali. «Viviamo una fase di forte volatilità, tra guerre, transizione energetica e polarizzazione. Ma chi investe sa che è proprio in questi momenti che si aprono le opportunità. Quando le quotazioni sono basse, si può entrare in mercati di lungo periodo, solidi nei bisogni. E la finanza d’impatto non rincorre le mode speculative: ha una logica diversa, di stabilità e visione». E qui torna un tema centrale: la mancanza di progetti industriali su larga scala nell’ambito dell’economia sociale. «Abbiamo tante realtà preziose, cooperative, imprese sociali, fondazioni. Ma troppo spesso lavorano su micro-progetti. Dobbiamo aiutarle a crescere, a pensare in grande. Pensiamo al tema della casa, agli anziani, ai flussi migratori: sono sfide enormi, che richiedono soluzioni sistemiche. La finanza c’è, le risorse ci sono, ma mancano idee industriali capaci di attrarre capitale paziente».
Un esempio concreto, secondo Granata, arriva dalla raccolta degli indumenti usati: «Ci siamo accorti che molte cooperative, considerate singolarmente, erano troppo piccole per generare interesse. Ma messe insieme rappresentano un terzo della raccolta a livello nazionale. Aggregandole, l’impatto aumenta e può parlare al mercato mainstream. È così che si crea massa critica». Anche il contesto normativo e regolatorio può fare la differenza. «Oggi alcune fondazioni stanno cambiando approccio: non solo fondi perduti, ma strumenti di investimento legati alla valutazione d’impatto. Se il tuo progetto dimostra di avere un impatto positivo, puoi capitalizzarlo. Questo significa premiare la qua-lità, incentivare chi lavora bene e creare condizioni di scalabilità». Alla domanda su cosa manchi ancora per fare il salto di scala, la risposta è netta: cultura e fiducia. « Dobbiamo far crescere la consapevolezza, anche tra i risparmiatori. Come dopo Expo 2015 è aumentata la cultura del cibo, oggi le persone iniziano a chiedersi: dove vanno a finire i miei soldi? Chi li usa e per fare cosa? È un cambio culturale, e la finanza a impatto può intercettarlo, se saprà farsi conoscere e raccontare».
Infine, uno sguardo al futuro, al 2030 e all’eredità che Social Impact Agenda per l’Italia vuole lasciare. « Il nostro obiettivo è che la finanza a impatto non sia più una nicchia – evidenzia Granata –. Vogliamo che diventi mainstream, che contamini la finanza tradizionale, che entri nei portafogli di investimento, nelle politiche pubbliche, nelle strategie aziendali. Ma per farlo servono progetti concreti, visibili, tangibili. Le persone devono poter vedere cosa significa investire a impatto: quartieri che cambiano, servizi che migliorano, comunità che si rafforzano». E conclude: « Abbiamo bisogno che accadano delle cose. Che la finanza a impatto non resti solo un bel concetto, ma che produca trasformazioni visibili. Solo così potrà diventare una leva reale di sviluppo per il Paese».

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