«Ecco perché sull'Ilva il governo deve cambiare rotta»
di Cinzia Arena
Uliano (Fim Cisl): i 108 milioni stanziati per il funzionamento degli impianti sono del tutto insufficienti e la vendita a pezzi per noi è inaccettabile. L'esecutivo faccia da imprenditore e utilizzi le sue partecipate

Aspettando un improbabile cavaliere bianco sono stati spesi fiumi di denaro pubblico: quelli per tenere operativi gli stabilimenti, si parla di 1,2 miliardi in due anni, e quelli per gli ammortizzatori sociali. Da gennaio, a conti fatti, saranno 7.600 i cassintegrati dell’acciaieria più grande d’Europa: tra quelli della nuova (Acciaierie d’Italia) e vecchia (Ilva) società, entrambe in amministrazione straordinaria. La rottura delle trattative al tavolo del Mimit martedì scorso e le proteste lungo tutta la Penisola, con stabilimenti occupati e strade bloccate, da Novi Ligure a Taranto passando per Genova, hanno spinto il governo a mettere a disposizione 108 milioni residui del finanziamento ponte, che basteranno sino a febbraio, e altri 20 per integrare gli stipendi di chi è in cassa. Spiccioli per il segretario generale della Fim Cisl, Ferdinando Uliano, che parla di una situazione insostenibile con una riduzione drastica delle attività produttive e lo stralcio, di fatto, del piano di decarbonizzazione in otto anni (sostituito da uno di quattro che i sindacati definiscono inaccettabile) che prevedeva tre forni elettrici a Taranto e uno a Genova e quattro impianti per il preridotto.
Uliano, lo sciopero ha avuto un’alta adesione in tutti gli stabilimenti, ma è servito a qualcosa?
I fondi stanziati per il funzionamento degli impianti, questi 108 milioni, sono del tutto insufficienti. Si tratta di una strategia al risparmio perché il governo ci ha comunicato nelle ultime due riunioni una riduzione delle attività che mette a rischio l’operatività degli stabilimenti e l’accantonamento del piano di decarbonizzazione sostituito con un altro assai diverso.
Quando si parla di Ilva il “malato cronico” è da sempre Taranto. Ma adesso sembra che le realtà più a rischio siano Genova e Novi Ligure, perché?
Sono le più penalizzate dal taglio delle produzioni deciso dal governo. Lavorano i prodotti laminati che arrivano da Taranto, in termine tecnico i coils: se non arrivano dalla Puglia, sono fermi. Da qui le proteste e la paura legittima di un’operazione di dismissione.
Il governatore ligure Marco Bucci ha detto che a questo punto la vendita a pezzi non è il peggiore dei mali.
Per noi sarebbe inaccettabile, non è questa la strada per uscire dalla situazione in cui ci troviamo. Noi chiediamo il rispetto del piano di decarbonizzazione che prevede la produzione di otto milioni di tonnellate con la sostituzione progressiva degli altoforni con i forni elettrici.
Il governo tentenna in attesa di un compratore: Baku Steel si è defilato, il fondo americano Bedrock potrebbe prendere il suo posto ma non c’è nulla di concreto, come mai l’ex Ilva non trova compratori?
Bisogna prendere atto che il contesto è questo: non ci sono soggetti privati realmente interessati. È da due anni che andiamo avanti così. Serve un cambio di rotta.
Quale potrebbe essere una strada alternativa alla vendita ai privati?
Il governo deve fare da imprenditore utilizzando le sue partecipate, da Invitalia (che possiede il 32% di Acciaierie d’Italia, ndr) a Cpd, passando per Leonardo e Fincantieri ma anche per Eni ed Enel. Possono essere utilizzate come nucleo proprietario attorno a cui costruire delle aggregazioni con i privati. L’acciaio è strategico per il settore della difesa e per l’auto, due ambiti in cui l’Italia sta investendo. Sarebbe assurdo che il Paese comprasse la materia prima all’estero quando ha l’acciaieria più grande d’Europa.
Venerdì 28 novembre c’è un altro incontro al Mimit, cosa vi aspettate?
Come segreterie nazionali abbiamo deciso di non partecipare. Il ministro Adolfo Urso ha convocato le istituzioni e le rappresentanze sindacali, regionali e nazionali, dopo lo sciopero, per stemperare le proteste sul territorio e fornire rassicurazioni. Ma a questo punto noi non abbiamo nulla da dire, vogliamo un tavolo a Palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni, non vogliamo più trascinarci in questa agonia in attesa di un cavaliere bianco che non arriverà.
A Taranto alcuni dei lavoratori in piazza sono in cassa integrazione da dieci anni, e i numeri continuano ad aumentare.
A conti fatti oggi, su 9.700 dipendenti di Acciaierie d’Italia, due su tre non lavorano. Sono in cassa integrazione 4.550 persone, per altre 1.500, a fronte di un taglio delle produzioni giustificato con interventi di manutenzione, a gennaio scatterà una formazione retribuita, al posto di altra cassa come era stato annunciato in un primo momento. A queste cifre si devono poi aggiungere i 1.600 di Ilva in amministrazione straordinaria (proprietaria degli impianti) che non lavorano dal 2018, da quando è arrivata ArcelorMittal. Il piano di decarbonizzazione prevedeva anche incentivi all’esodo in vista di una riduzione fisiologica dei lavoratori con il passaggio all’elettrico. Altro tasto dolente quello dell’indotto, con migliaia di lavoratori a rischio.
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