sabato 11 novembre 2017
In Vietnam passi avanti nel Tpp, l'accordo di libero scambio trans-pacifico da cui gli Stati Uniti si sono chiamati fuori. Così l'America rischia un'autarchia che non si può permettere
Il ministro del Commercio vietnamita, Tran Tuan Anh, e il ministro dell'Economia giapponese, Toshimitsu Motegi, annunciano il nuovo accordo trans-pacifico (Ansa-Ap)

Il ministro del Commercio vietnamita, Tran Tuan Anh, e il ministro dell'Economia giapponese, Toshimitsu Motegi, annunciano il nuovo accordo trans-pacifico (Ansa-Ap)

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La globalizzazione può andare avanti anche senza gli Stati Uniti. Al vertice dell’Apec, l’organismo per la cooperazione economica che riunisce ventuno paesi tra le due sponde dell’Oceano pacifico, i leader delle undici nazioni che stanno negoziando l’accordo di libero scambio trans-pacifico (Tpp) hanno trovato l’intesa di base per proseguire le trattative. «Abbiamo superato la parte più difficile» ha spiegato Tran Tuan Anh, ministro del commercio del Vietnam, spiegando anche che l’accordo cambia nome in Cptpp, sigla che sta “Intesa comprensiva e progressiva per la partnership trans-pacifica”.

I negoziatori hanno dovuto sospendere diversi punti dell’accordo iniziale, firmato nel 2015 e ratificato solo da due paesi su undici, eliminando parti sensibili come quelle che riguardano i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e la proprietà intellettuale. Ma l’intesa è sopravvissuta e questo non era scontato, dopo che all’inizio dell’anno Donald Trump, a pochi giorni dal suo ingresso alla Casa Bianca, ha ritirato gli Stati Uniti dal negoziato. Il Canada, in particolare, fino all’ultimo ha manifestato le sue perplessità. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha spiegato che c’è ancora da lavorare per arrivare «al miglior accordo per il popolo canadese». Il tempo però non abbonda.

L'argine all'egemonia cinese

Chi preme per arrivare al più presto a un’intesa è il Giappone, ora prima economia per dimensione del Pil tra quelle che negoziano il Tpp (la seconda è il Canada mentre fanno parte del patto anche Australia, Nuova Zelanda, Messico, Cile, Peru, Vietnam, Malesia, Singapore e Brunei). Toshimitsu Motegi, ministro dell’Economia nipponico, ha spiegato che quando sei paesi completeranno le procedure per ratificarlo il nuovo patto entrerà in vigore dopo 60 giorni. L’obiettivo realistico è farcela nella prima metà del 2018.

Un’intesa che eliminando dazi e tariffe crei un’area di libero scambio tra nazioni che rappresentano il 13,5% del Pil e il 15,2% del commercio globali serve a Tokyo per contrastare l’egemonia cinese nel commercio asiatico e mondiale. Pechino, che ha snobbato il passo avanti segnato ieri notando che i suoi delegati si sono concentrati sui contenuti del vertice Apec, sta lavorando a un accordo diverso: il Rcep, che coinvolge diversi paesi già parte del Tpp (tra i quali lo stesso Giappone) e porta dentro anche l’India, l’altra potenza emergente asiatica. Soprattutto, il Rcep mette la Cina al centro del sistema.

In gioco poteri (globali) e posti di lavoro (locali)

Dall’esito di queste trattative dipende buona parte dei futuri equilibri globali dell’economia e di conseguenza anche della politica. A rendere molto difficile il negoziato sono i rapporti dare-avere all’interno di ogni singolo Stato: ogni governo cerca di ottenere il più possibile per le proprie imprese esportatrici e concedere il meno possibile per non lasciare senza protezione le aziende che operano sul mercato interno. In gioco, è evidente, le fabbriche e i posti di lavoro. Il comunicato finale del vertice Apec, di cui fanno parte anche gli Usa, ha condannato «le pratiche commerciali scorrette» e «i sussidi che distorcono il mercato» proprio per dare spazio ai dubbi dell’occidente.

Certo, è tardi. Trump, con lo slogan America First, ha ritirato gli Stati Uniti dalla trattativa per il libero scambio con l’Asia e da quella con l’Europa, il Ttip, mentre punta a cambiare il già consolidato accordo nordamericano, il Nafta. Ma se le intese tra i paesi vanno avanti comunque, lasciando fuori l’America, gli Stati Uniti rischiano di costruirsi un futuro autarchico che nemmeno la prima economia del mondo può permettersi.

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