«Se Gesù tornasse oggi in Asia...». Voci da un continente che ha sete di Dio
di Giorgio Bernardelli, Penang (Malesia)
Tre abitanti su cinque nel Pianeta vivono qui, dove la dimensione della Chiesa in uscita è naturale. Il racconto di tre giorni di confronto in Malesia tra vescovi, sacerdoti, religiose e laici: dai luoghi di speranza della nuova evangelizzazione alle periferie esistenziali, in cui ci sono guerre e povertà

«Se Gesù tornasse oggi in Asia lo troveremmo ad aspettare un treno affollato di Mumbai o nel traffico di Manila, tra migranti e giovani che scrollano il cellulare. Ci direbbe: “Mi ricordo di questo posto, sono nato qui”». È stato il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, a suggerire l’immagine agli oltre 800 delegati provenienti dalla Chiese di tutto il continente che dal 27 al 30 novembre a Penang in Malesia, insieme a un centinaio di volontari della Chiesa malese, hanno dato vita al “Grande pellegrinaggio della speranza”, il Convegno missionario continentale promosso dalla Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc).
Proprio la ricerca di una via all’evangelizzazione calata nel contesto specifico del continente dove vivono oggi 3 abitanti su 5 del Pianeta è stato il filo rosso che ha visto vescovi, sacerdoti, religiose e un gran numero di laici confrontarsi intorno a un’ottantina di “tavoli sinodali”. Dando voce a un cattolicesimo vivace, non vittimista e soprattutto convinto che a contare nella missione oggi non sia l’ansia dei numeri ma la capacità di abitare fino in fondo i valori e le culture che rendono straordinariamente ricco questo continente.
«L’Asia non è rimasta un museo: è un luogo di creatività e di duro lavoro – ha osservato George Palliparampil, arcivescovo di Miao in India, che è il presidente della Commissione per l’evangelizzazione della Fabc –. L’Asia è un importante polo globale per l’industria e il commercio. Ma presenta anche criticità: il degrado ambientale, lo sfruttamento del lavoro, i rischi geopolitici, le disparità economiche. Siamo venuti qui a ringraziare Dio, manifestando amore e apprezzamento per la nostra fede e per le nostre culture. Ma al tempo stesso ci impegniamo ad accogliere la chiamata del Signore a rendere il mondo un posto migliore».
Guardando l’Asia nel suo complesso i cristiani sono solo il 3% della popolazione, la percentuale più bassa tra tutti i continenti. Giovanni Paolo II già nel 1999 lo definiva «il continente del Terzo millennio» per la Chiesa. Ma proprio le giornate di Penang hanno mostrato come la profezia di questo piccolo gregge possa essere oggi una parola interessante per ogni latitudine. Per esempio nella capacità tutta asiatica di guardare alle altre religioni non come a dei competitor, ma come ai “vicini di casa” con cui camminare. «Siamo minoranza e ci riconosciamo come tali – commenta Simon Poh, arcivescovo di Kuming e presidente della Conferenza episcopale della Malesia –. Ma siamo comunque battezzati e inviati a tutti. Il Signore ci chiede di uscire dalle nostre chiese per andare nelle strade. Lasciare le nostre comfort zone per le periferie, servendolo là nei nostri fratelli».
È la strada dei Magi contrapposta a quella di Erode che il cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del dicastero dell’Evangelizzazione, ha proposto nella riflessione che ha aperto i lavori. «Il pellegrinaggio della speranza – ha spiegato – contro la disperazione di chi pensa solo a mantenere il potere e per questo arriva a uccidere persino i bambini». Consapevoli, però, che il Risorto sta già percorrendo le strade del continente. «In Asia – ha sottolineato in un’altra delle relazioni centrali il cardinale Pablo Virgilio David, vescovo di Kalookan e presidente della Conferenza episcopale delle Filippine – Gesù cammina con i migranti in cerca di un nuovo inizio, con le famiglie prostrate dalla guerra e dalla povertà, coi giovani in cerca di un senso nel mondo digitale, con le vittime della violenza e dello sfruttamento, con i popoli indigeni che difendono le loro sacre terre, con le comunità che si rialzano dopo tifoni, terremoti e alluvioni, con le famiglie che lottano contro le dipendenze, con tutti quelli che hanno sete di essere visti, compresi e amati». Per tutti questi contesti David ha indicato l’orizzonte di un’evangelizzazione che in Asia «non può essere gridata: è relazionale, rispettosa, contemplativa. Opera nel terreno fertile della buona volontà, con un’offerta genuina di amicizia, senza altre motivazioni».
«La missione non può attendere – ha detto chiudendo i lavori il cardinale Filipe Neri Ferrao, arcivescovo di Goa e presidente della Fabc –. La fame di Dio è profonda. L’anelito alla giustizia è reale. La sete di senso dei nostri giovani è intensa. Gesù non ci chiede di prevedere il futuro, ma di essere pronti alla presenza sorprendente di Dio. Ritorniamo ai nostri Paesi con nuovo coraggio, pronti ad annunciare Cristo con gentilezza e con gioia. Con nuova speranza, consapevoli che Dio sta plasmando l’Asia attraverso di noi».
L'arcivescovo Menamparampil: sussurrate il Vangelo a questa terra
«Sussurrare il Vangelo all’anima dell’Asia». Se c’è un verbo che incarna più di ogni altro lo spirito della missione in questo grande continente, è proprio questo parlare con un tono sommesso ma allo stesso tempo amichevole. Va sussurrata la parola di Gesù perché possa essere ascoltata in Asia: lo ripete da tanti anni Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati nell’Assam, in India, teologo molto stimato non solo nel continente: Benedetto XVI nel 2009 lo scelse per scrivere i testi della Via Crucis da lui presieduta al Colosseo, nella quale fece dialogare la Passione di Gesù con i versi di Tagore, con la testimonianza di Gandhi, persino con un verso delle Upanishad.
Sulla soglia ormai dei novant’anni, ai tavoli del Congresso di Penang a dialogare con vescovi, laici e anche tanti giovani c’era anche questo anziano maestro, perfettamente a suo agio nello stile di una Chiesa sinodale. Ha provato a rileggere nel contesto dell’Asia dinamica di oggi, in profonda trasformazione, quell’idea di una parola di Gesù fatta risuonare a bassa voce, rivolgendosi direttamente al cuore delle persone. «Se uso l’espressione “sussurrare il Vangelo” – spiega – non è per paura o solo per prudenza (che pure ci vuole in tanti contesti politici di questo continente). Ciò che mi preme sottolineare è l’intimità, la vicinanza personale. Gesù sussurrava nel cenacolo, parlava alla samaritana: sussurrare è quel tipo di conversazione personale, intima, profonda, che trasmette un messaggio profondo. Quando condividi qualcosa di nuovo con qualcuno, quando discuti, lo stile deve essere quello dell’intimità».
È un modo di porsi che diventa sempre di più anche un segno per l’Asia di oggi. «Oggi anche qui il re della società è chi si vanta – commenta l’arcivescovo emerito di Guwahati -–. L’uomo che fa soldi o il politico che decanta i suoi successi sono diventati quasi una forma di spiritualità. Ma noi non ci identifichiamo con questo tipo di leadership. E anche da minoranza possiamo agire con senso di responsabilità, per il bene comune, con impegno, esercitando un’influenza soprattutto sulla parte pensante della società».
Per Menamparampil occorre però anche un esame di coscienza da parte dei cristiani dell’Asia: «Viviamo in un’epoca post-coloniale; in ogni nostro Paese c’è una sorta di orgoglio culturale e nazionalista. Legittimo in sé, ma anche un po’ esagerato. Così si pensa che noi cristiani rappresentiamo l’Occidente. Non è vero: il cristianesimo è nato in Oriente. Però, a volte, è ciò che noi stessi comunichiamo con alcune tradizioni che abbiamo adottato – nel vestire, nel cibo o in altre cose. Dobbiamo chiederci: non è che siamo delle persone sradicate? Solo chi conosce intimamente le preoccupazioni fondamentali della civiltà, della cultura e della società per cui lavora, arriva all’anima di una comunità. Ma su questo siamo ancora troppo indietro». Anche perché gli spazi per far incontrare Gesù esistono e sono anche tanti in Asia. «Tra il nord dell’India, la Thailandia, il Myanmar, il Sud della Cina, il Vietnam – spiega ad esempio mons. Menamparampil – ci sono 200 milioni di persone appartenenti a gruppi tribali che spesso aspettano solo una nostra parola. Penso alla storia di un leader di uno di questi gruppi della mia zona. Una sera ho potuto avere una lunga conversazione con lui. Passo dopo passo sono riuscito a condurlo fino al battesimo: ora – dopo 20 o 30 anni – lui, la sua famiglia, il suo villaggio, la sua tribù, sono tutti venuti alla fede. Ma è accaduto solo grazie a un dialogo profondo, avvenuto nell’intimità della nostra amicizia».
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