lunedì 22 novembre 2021
Ultimo sopravvissuto della comunità di Tibhirine i cui sette fratelli sono stati rapiti e uccisi nel 1996, è morto in Marocco, dove ha continuato a mantenere vivo lo spirito della sua comunità
I sette monaci giustiziati nel 1996 sono stati beatificati l'8 dicembre 2018 ad Orano, insieme ad altri 12 religiosi martiri della guerra civile algerina. Fratel Jean-Pierre, allora 94 anni, ha potuto assistere alla cerimonia.  Nel 2019, fra i momenti più toccanti del viaggio apostolico del Papa in Marocco, ci fu proprio l’attimo in cui Francesco abbracciò e baciò la mano del monaco trappista.

I sette monaci giustiziati nel 1996 sono stati beatificati l'8 dicembre 2018 ad Orano, insieme ad altri 12 religiosi martiri della guerra civile algerina. Fratel Jean-Pierre, allora 94 anni, ha potuto assistere alla cerimonia. Nel 2019, fra i momenti più toccanti del viaggio apostolico del Papa in Marocco, ci fu proprio l’attimo in cui Francesco abbracciò e baciò la mano del monaco trappista. - Vatican Media

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È morto fratel Jean-Pierre Schumacher, l’ultimo sopravvissuto al massacro avvenuto nel 1996 dei monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, rapiti e poi uccisi da militanti islamici, e in seguito beatificati nel 2018 a Orano, insieme ad altri dodici martiri d’Algeria. Quella tragica notte fratel Jean-Pierre scampò al sequestro perché era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero.

«Non volevamo essere martiri, piuttosto segni d’amore e di speranza». Se li ricordava così gli ultimi anni vissuti al monastero di Tibhirine, frère Jean-Pierre Schumacher, che con un altro monaco, Amedée, era sopravvissuto alla strage di sette suoi confratelli avvenuta nella primavera del 1996.
Ora se n’è andato pure lui, memoria vivente di quel massacro, ma soprattutto di quella presenza di “oranti tra gli oranti” che sono stati i trappisti in Algeria, anche negli anni bui del terrorismo jihadista. È deceduto all’età di 97 anni nel monastero di Midelt, in Marocco, unica presenza trappista rimasta da allora in Nordafrica. Continuando a testimoniare silenziosamente Gesù Cristo nella vita di tutti i giorni, in mezzo a una popolazione esclusivamente musulmana.
«La nostra presenza a Tibhirine - ci raccontava - era innanzitutto un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina. Il mio ricordo più bello? È proprio quello della nostra comunità: l’ufficio del mattino, i lavori in comune, ma soprattutto le relazioni fraterne. Sì, le relazioni fraterne...», ci diceva commuovendosi. «Ma anche quelle con i vicini - insisteva -. Non potevamo andarcene. Quando sono arrivato a Tibhirine nel 1964, c’è voluto un po’ di tempo per conoscerci reciprocamente. Poi, ci si sentiva come una famiglia».
Una famiglia che è stata brutalmente ferita. Perché il rapimento, avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 marzo, e l’uccisione dei sette monaci, probabilmente in maggio, ha lasciato una lacerazione profonda non solo nella Chiesa d’Algeria, ma nella comunità di Tibhirine e in una parte della società algerina che non poteva immaginare che degli uomini di preghiera potessero venire barbaramente massacrati.
Frère Jean-Pierre se la ricordava benissimo quella notte: «Ero in portineria, fuori dalla clausura. Ho sentito dei rumori: pensavo fossero venuti a prendere le medicine, come era già capitato. Poi quando è tornato il silenzio, qualcuno ha bussato alla mia porta. Ho avuto un po’ paura, poi ho aperto. Era Amedée, che mi ha detto: “Hanno portato via i nostri fratelli. Siamo rimasti soli, io e teۚ».
Frère Jean-Pierre era tornato a parlare di quel momento anche alla vigilia della beatificazione dei suoi confratelli e degli altri 12 martiri d’Algeria, celebrata a Orano l’8 dicembre del 2018. Era la prima volta che tornava nel Paese dopo la strage del ’96 e i funerali.
Anche a Orano, ricordava di quante volte la sua mente fosse tornata insistentemente su un versetto del Vangelo di Luca che dice: «Uno sarà preso e l’altro lasciato». «Queste parole - rifletteva frère Jean-Pierre commuovendosi - hanno continuato a vibrare a lungo dentro di me e mi hanno tormentato un po’. Mi sono chiesto se il mio cuore non fosse pronto, se la mia lampada non fosse illuminata. Il Signore non mi riteneva abbastanza degno di essere con loro?».

Poi, un giorno, la badessa di un monastero svizzero gli scrisse una lettera: «Non deve affliggersi: il Signore ha voluto che dessero la loro testimonianza d’amore con la morte; altri sono lasciati perché continuino a trasmettere il messaggio d’amore con la vita». «Mi ha fatto molto pensare - continuava Jean-Pierre -: non so se ho veramente risposto a questo interrogativo. Ma ci ho provato per tutta la mia vita monastica che dura ormai da oltre cinquant’anni».

La sua è stata vocazione vissuta quasi esclusivamente in un contesto musulmano, tra Algeria e Marocco, dove lo ha incontrato anche Papa Francesco nel corso della sua visita del marzo 2019: «Non tutti condividevano la nostra scelta. Ma per me è stato naturale. A Tibhirine, mi occupavo delle spese e di portare i nostri prodotti al mercato. Ero in un certo senso il monastero in mezzo alla gente. Si realizzava così, in modo semplice, con il lavoro e la condivisione dei momenti forti della vita delle persone, attraverso la solidarietà e soprattutto le cure mediche fornite da frère Luc, il nostro modo di testimoniavamo il Vangelo e di vivere il dialogo islamo-cristiano nel quotidiano. Il dialogo della vita».

Prima della beatificazione, frère Jean-Pierre era rientrato in Algeria solo per i funerali e la sepoltura dei suoi fratelli. E anche di quei momenti aveva ricordi precisi e a volte commuoventi. «La polizia e i militari non volevano lasciare entrare nel monastero la gente dei dintorni perché rendesse omaggio ai fratelli. Alla fine, hanno accettato. Allora gli abitanti del villaggio sono entrati e tutti hanno gettato un pugno di terra sulle tombe dei monaci, come se fossero di famiglia».
Ora è così che molti continueranno a ricordare anche frère Jean-Pierre: uno di famiglia.

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