sabato 23 febbraio 2019
Parla Anna Deodato che svolge un servizio di ascolto e di accompagnamento a Milano. «L'esito del summit dipende dalla capacità di ascolto dei cuori feriti»
«Troppi silenzi sulle suore vittime di abusi»
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Cambiano le storie e i percorsi ma un dato emerge da tutte le testimonianze: l’abuso è un’esperienza di morte. Lascia ferite profonde, difficili se non impossibili da guarire. Si tratta di ritornare a vivere, di ridare un senso alla propria esistenza, di ricominciare ad accettarsi, superando innanzitutto la vergogna degli innocenti. Quella che ti fa sentire responsabile di qualcosa che non hai commesso. E poi c’è bisogno di coraggio, tanto coraggio, per denunciare. A dispetto dei silenzi complici di chi ti circonda. No, non è facile. Soprattutto se sei una donna e la violenza si consuma in un luogo che dovrebbe ispirarsi alla logica del Vangelo. L’ha sottolineato con chiarezza il Papa di ritorno dal viaggio ad Abu Dhabi, richiamando la deriva culturale, purtroppo tuttora presente in molti Paesi, per cui la donna, sono parole sue, «è ancora considerata di seconda classe».

Anna Deodato, appartenente all’istituto Ausiliarie Diocesane di Milano, svolge il servizio di ascolto e accompagnamento presso il centro per Accompagnamento vocazionale di Milano. Chiamata a far parte del neonato Servizio nazionale per la tutela dei minori, nel 2016 ha raccontato la sua esperienza nel volume Vorrei risorgere dalle mie ferite (Edizioni Dehoniane Bologna; 244 pagine; 22 euro) in cui ha raccolto storie di donne consacrate vittime di abusi da parte di preti e consorelle di comunità. «Quello in corso in Vaticano – spiega – è senz’altro un incontro senza precedenti e, come ha detto il Papa all’Angelus di domenica 17 febbraio, siamo di fronte a un atto di forte responsabilità pastorale davanti ad una sfida le attese sono molte, ma vanno anche ridimensionate, perché il dramma degli abusi su minori e persone vulnerabili è purtroppo una piaga che coinvolge tutti i Paesi, non solo quelli occidentali. Quindi al di là di riflessioni comuni che potranno uscire dal summit, poi ogni Paese e diocesi dovrà lavorare nel rispetto della propria cultura e del proprio contesto».

Quale risultato dobbiamo aspettarci?

È molto importante il primo passo che papa Francesco ha chiesto ai presidenti delle Conferenze episcopali: ascoltare le vittime. Credo che da come è stato fatto e vissuto questo ascolto dipenderà l’esito del summit. Solo un cuore ferito dal dolore per le vittime (persone fragili e vulnerabili segnate in se stesse, nella loro carne, nel loro cuore, nella loro storia) è capace di quella verità e libertà che guiderà, per osmosi, le riflessioni, suggerirà scelte e decisioni forti e chiare. Anche profetiche. Prendere coscienza del dramma e della sofferenza delle persone vittime di abusi è l’unica via affinché ogni vescovo assuma la sua responsabilità, come singolo e nell’intera comunità cristiana, dinanzi a questa ferita che sanguina nel cuore della Chiesa e che ha colpito un’infinità di persone. Vittime innocenti. Saranno decise procedure e compiti per ogni livello di corresponsabilità ecclesiale, sarà chiesta trasparenza anche sui modi in cui verranno seguiti. Tutto ciò è molto importante perché il popolo di Dio e in esso, chi è stato colpito da questo dramma, le loro famiglie, amici, comunità, possano tornare a sentire e vivere la Chiesa come una madre amorevole che ha cura dei più “piccoli”.

Lei ha incontrato e accompagnato anche donne consacrate che hanno subito un abuso. Immagino che la prima difficoltà per le vittime sia trovare il coraggio di denunciare.

Prima di tutto una persona vittima di abuso deve trovare il coraggio per vivere. Continuare a trovare motivi per vivere e, eventualmente, per continuare a credere in Dio. L’abuso è un’esperienza di morte. È una tragica e dolorosissima frattura che avviene all’interno di una relazione di fiducia. Stare accanto e accompagnare una persona vittima di abuso è divenire testimone dell’angoscia che deriva da una terribile sopraffazione e chiede di tornare ad affrontare con molta attenzione e delicatezza vissuti e memorie molto profonde, racchiuse spesso in un vissuto di vergogna e colpa per cercare una via per un possibile superamento. Per alcune situazioni si deve dire: per farcela ad uscirne vivi! Il primo rispetto è dovuto al cammino di ciascuna vittima e ai passi possibili e vitali per lei. Ciò che può sembrare urgente e scontato a chi accompagna, in questo caso la necessità di denunciare, potrebbe non esserlo per colei che ha subito. Il processo interiore è molto lungo. I termini di prescrizione sono brevi e purtroppo difficili da coniugare con l’emergere dei ricordi, il lungo processo di guarigione e la tempistica richiesta per la denuncia in sede civile. C’è anche chi non se la sente di denunciare per paura di rivivere un’umiliazione troppo grande che farebbe ancora del male. Per non trovarsi di nuovo di fronte a colui che l’ha abusata perché non sosterrebbe il dolore, oltre che essere scoraggiata dopo aver visto come agisce il sistema di tutela ecclesiastico verso coloro che hanno qualche forma di potere. Anche questo non dobbiamo nascondercelo. Denuncia, giustizia, perdono… sono aspetti che richiedono un approfondimento serio, urgente, importante, necessario. Dobbiamo tutti, società civile ed ecclesiale, interrogarci come il dolore delle vittime possa essere accolto, rispettato e trasformato. È uno snodo vitale importantissimo perché si rischia di aggiungere dolore su dolore e questa è una forma di reiterazione dell’abuso. Va ammesso con realismo che la giustizia non è detto che arrivi alla verità perché se non c’è ammissione di colpa, è la parola della vittima contro quella del colpevole che è spesso una persona più potente. Questo dato va considerato molto attentamente, chi denuncia ha davanti tempi molto lunghi e indagini complesse. La denuncia è un atto in cui va racchiusa una decisione che, mentre accusa, si è già in buona parte liberata dal macigno del passato. La persona vittima di abuso attenderà una sentenza, ma senza fare dipendere la sua vita da quella risposta. Questo è l’arduo lavoro da sostenere con lei. Anche per questo motivo Le vittime preferiscono essere chiamate sopravvissuti. Sopravvissuti al trauma che le ha travolte e cancellato parte della loro vita e sopravvissute al lungo e faticoso cammino di rielaborazione della loro ferita e ripartenza nella vita.

L’abuso sulle religiose è spesso taciuto nella Chiesa. Perché? Ci sono responsabilità anche da parte delle Congregazioni?

Le ferite che le donne consacrate hanno subito riguardano diversi tipi di abuso: potere, sessuale, fisico, di coscienza ed è una realtà più diffusa di quanto si pensi. È un dolore nascosto, ultimo, forse il più difficile da portare alla luce per molti motivi culturali, sociali, ecclesiali. Capita anche che le stesse Congregazioni e Istituti religiosi preferiscano minimizzare sulle diverse forme di abuso, senza sostenere la vittima nel suo percorso di guarigione e di liberazione per non dare scandalo. Purtroppo questo comportamento ancora diffuso è una forma di collusione col male. Di fronte all’abuso di una donna consacrata c’è ancora silenzio e superficialità, le istituzioni tendono a mascherarsi dietro a forme di moralismo e di mistificazione: tutte queste sono forme di reiterazione dell’abuso stesso. Dobbiamo chiedere il dono del coraggio evangelico per tutta la Chiesa e in essa ogni forma di istituzione, Congregazione antica e nuova di vita consacrata: non possiamo più volgere lo sguardo altrove: la coscienza ecclesiale, esplicitata dal magistero di papa Francesco, non permette più forme di pavidità, di svalutazione e di omertà.

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