mercoledì 14 maggio 2025
Don Cosentino sul dibattito aperto su Avvenire da padre Spadaro: «L’ascesi del teologo comprende la fatica dello studio, il respiro della preghiera, l’adesione concreta alla realtà»
Un'immagine di repertorio dell'apertura del Concilio Vaticano II, che venne convocato da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI

Un'immagine di repertorio dell'apertura del Concilio Vaticano II, che venne convocato da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI - foto Siciliani

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Nell’attuale cambiamento d’epoca di cui si parla da tempo, ci fa bene richiamare quell’orizzonte teologico del Novecento che ha recuperato il valore del rapporto tra fede e storia, aiutando il cristianesimo a ripensare le categorie della stessa Rivelazione, a ricentrarsi sull’incarnazione e, di conseguenza, a emanciparsi da una metafisica astratta e da forme polemiche di apologia, che spesso lo hanno semplicemente contrapposto al mondo.

Allo stesso tempo, l’esortazione di Gaudium et spes di una Chiesa e un cristianesimo capaci di abitare il mondo, interpretandone i segni e facendosi eco delle speranze e delle angosce del nostro tempo, per quanto importante e preziosa, oggi sembra quasi non bastare più o, quantomeno, deve essere declinata in modo nuovo. Infatti, benché la Costituzione conciliare parli di una «rapida evoluzione» e di sempre maggiori discrepanze esistenti nel mondo, la velocità impressa ai fenomeni sociali e culturali degli ultimi decenni ha inaugurato una situazione ulteriormente nuova, e noi tutti avvertiamo come la sensazione di essere travolti dalle “rapide” di un torrente ed esposti ai venti di burrasca di cambiamenti repentini e mutamenti antropologici notevoli. Così, mentre aumenta la fatica di “stare al passo” con e tra i tempi, cresce anche la frustrazione della comunità cristiana, ingabbiata nella percezione di essere in ritardo.

Ci serve, allora, una “teologia rapida” per compiere la discesa fluviale tra le rapide del nostro tempo? L’interrogativo non è privo di consistenza e, anzi, ricorda alla teologia – ma in generale direi alla Chiesa – che la missione evangelizzatrice non ammette ritardi di sorta e atteggiamenti sedentari ma, anzi, l’annuncio del Vangelo si lascia sospingere da quel vento che «non sai da dove viene e dove va» (Gv 3,8) e perciò fa la stessa strada dell’uomo, seguendo i suoi ritmi incalzanti e lasciandosi sfidare dalle sue inquietudini.

Tuttavia, ritengo possa essere utile soffermarsi sulla questione della stessa identità della teologia, magari per essere aiutati a mettere a fuoco la “rapidità” che ad essa si chiede.

A prescindere dalle numerose definizioni classiche, ci si può soffermare sul fatto che la teologia è un processo. Se c’è una differenza da marcare rispetto ad altre modalità dell’annuncio cristiano e ad altri “generi letterari” – che pure devono radicarsi in un pensiero solido ed evitare la banalizzazione – è proprio questa: la pazienza del processo.

La lunga fatica che è stata portata avanti nei secoli addietro per far emergere la scientificità del discorso teologico esige infatti la coerenza, da parte nostra, nel rispettare i canoni tipici della scienza, che non può essere fatta nella fretta e non può arrivare a conclusioni affrettate; considerando che la teologia non si lascia racchiudere in formule matematiche in quanto essa si sporge vertiginosamente sul Mistero stesso di Dio, essa ha bisogno di un lento e approfondito apprendistato alla scuola del Vangelo, di imparare a conoscere ogni giorno il vero volto di Dio per evitare il rischio di deformarlo quando lo annuncia, di scendere in profondità per leggere il cuore dell’uomo alla luce della Parola e la luce della Parola nel cuore del tempo e della storia.

Questo processo richiede una grande ascesi (ben conosciuta dai teologi), che comprende la fatica dello studio, il respiro della preghiera, l’adesione concreta alla realtà, la competenza scientifica, il coraggio di sviluppare un pensiero critico della fede; tutto ciò si acquisisce lentamente e talvolta al prezzo di continue revisioni, approfondimenti, perfino grandi “crisi” del pensiero e della stessa esistenza personale del teologo che, come diceva Lonergan, è inserito con tutto se stesso in questo percorso di conversione integrale.

Scopo del teologare, oltre all’approfondimento e allo sviluppo di un pensiero critico che sostenga e accompagni la fede dei credenti, anche quello di approdare a una sintesi il più possibile fedele alla verità che Dio ha voluto rivelarci, il che richiede un certo processo interiore e al tempo stesso un’interiorità dei processi. Occorre pertanto vigilare perché, come afferma Papa Francesco in Dilexit nos, oggi «ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede».

Se non vuole correre il rischio di essere banalmente un semplice “bignami” della fede o, ancor peggio, una spada affilata per combattere qualche battaglia identitaria, la teologia deve essere forgiata proprio nella pazienza. La banalizzazione e il fondamentalismo nascono entrambi dal voler fuggire alla fatica, non sempre gratificante, del pensiero, tentazione che nasce a sua volta dalla fretta di voler definire Dio e avere un pensiero luminoso su tutto. Come afferma il teologo Tomáš Halík, ateismo e fede intransigente, pur sembrando diversi, sono uguali: davanti a un Dio che è mistero essi hanno l’impazienza di risolverlo in fretta.

La teologia ha invece bisogno della pazienza che accompagna il processo. Essa sa, inoltre, che il mistero di Dio è paradossale, secondo la bella intuizione di de Lubac ben radicata nella tradizione della teologia negativa: Egli si rivela ma rimane al contempo il Totalmente Altro, il Dio che non si lascia catturare dai concetti né risucchiare dall’umano, Colui che si immerge nella storia ma per imprimerle una direzione escatologica che la porti a compimento oltre se stessa: «Spudoratamente immanente ma assolutamente trascendente», secondo una bella espressione che ho ascoltato dal teologo Elmar Salmann quando ero studente.

In un tempo intriso di velocità – ha detto papa Francesco di recente all’Università di Palermo – la teologia ha bisogno della lentezza per elaborare, apprendere, comprendere.

Quale rapidità, allora? C’è una giusta collocazione anche per questa istanza. Infatti, se la teologia non è intesa come un esercizio speculativo puramente astratto, ma ha a che fare con la fede dei credenti, col cammino del popolo di Dio e con le domande del cuore umano, allora essa ha bisogno della “lentezza” dell’approfondimento e, insieme, della “rapidità” per incarnarsi.

Diciamolo altrimenti: la teologia “serve” a generare visioni e fornire stimoli alla vita pastorale, alla liturgia, ai percorsi spirituali, alla vita stessa della Chiesa così come alla ricerca del senso o di Dio che abita il cuore di tante persone; perciò, il processo del pensare teologico deve essere lento per immergersi nelle profondità del Mistero e approfondirne i contorni, ma le intuizioni, i linguaggi, gli orizzonti e le prassi pastorali che la teologia ispira possono e devono essere rapidi, per incarnarsi nella storia e attraversare i frangenti culturali.

Non è forse vero che, come spesso andiamo ripetendo anche a proposito del Concilio Vaticano II, ciò che la teologia ha intuito nel suo esercizio intellettuale e ciò che lo stesso Magistero ha poi definito, spesso ha trovato indomabili lentezze e ritardi nella concreta vita ecclesiale e pastorale? E allora – anche allo scopo di superare la dicotomia tra le due realtà – forse ci serve una teologia lenta e un’acquisizione pastorale rapida. Forse occorre che l’incarnazione pastorale e spirituale delle intuizioni teologiche non si attardi dietro i paraventi del tradizionalismo e sia invece al passo con le nuove sfide. Una teologia lenta garantisce la sostanza dei contenuti; ma una prassi pastorale rapida ci salva dal restare disincarnati, lasciando morire anche le migliori intuizioni e imprigionandoci nel “si è sempre fatto così”.

docente di Teologia fondamentale, Pontificia Università Gregoriana


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